"iPerché" di impaginato, risponde Santangelo: ecco pregi e difetti della globalizzazione selvaggia


L'autore di "Babel - Dai dazi di Trump alla guerra in Siria" accosta la partita dei flussi e il futuro dell'Ue


di Francesco De Palo
Categoria: ABRUZZO
14/08/2018 alle ore 18:19

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Dall'illusione del mercatismo come medicina per l'iper conflittualità, alla sfrenata globalizzazione che si è sommata tragicamente ai flussi migratori e di capitali. 

Questo spaccato della società post moderna, tutta presa a dividersi tra sovranisti ed euro-progressisti, è affrescato analiticamente nel pamphlet “Babel – Dai dazi di Trump alla guerra in Siria” (Castelvecchi) curato da Salvatore Santangelo, giornalista e docente universitario, grande esperto di politica internazionale e di storia del Novecento che in questa conversazione con Impaginato.it perimetra cause ed effetti delle reazioni socio-politiche ad un'integrazione economica che è partita dall'Ue ma, proprio nell'Ue, ha trovato tutti i suoi limiti.

D. Contemporaneità e pensiero globalista: che contorni ha la società descritta in Babel?

R. Ci troviamo a vivere una fase con un cambio di paradigma: la globalizzazione, sostenuta dall'ideologia del globalismo, sta battendo il passo. Ma non è facile immaginare quale sarà il punto di sbocco di tale percorso, neanche quale sarà il percorso migliore per la nostra comunità nazionale. Siamo nell'epicentro del cosiddetto ritorno di fiamma di tutti i problemi generali della globalizzazione, con il suo corollario di delocalizzazioni e impoverimento dei ceti medi. Un meccanismo che ha portato alla vittoria di Donald Trump negli Usa, all'affermazione dei sovranisti e ad un attacco frontale verso le istituzioni comunitarie.

D. Perché crede che il libero mercato e l’integrazione economica abbiano prodotto più conflitti?

R. Secondo le teorie mercatiste, il libero commercio avrebbe dovuto avere il pregio di limitare i conflitti e in caso di contrasto tra singole nazioni, la lobby silente di chi era interessato a mantenere aperto il canale commerciale avrebbe avuto la meglio. E invece stiamo assistendo alla dimensione economica che diventa un'ulteriore dimensione del conflitto che non è più quello tradizionalmente noto. Ma assume i contorni di una guerra ibrida, a cui prendono parte anche i media, dove giornali e commercio estero sono fattori determinanti nella dinamica conflittuale, come sta accedendo in Turchia.

D. Ad Ankara contano più le sviste ideologiche del Sultano o le cosiddette influenze esterne?

R. Certamente il “miracolo turco”, a cui abbiamo assistito nella forma di una sorta di nuova tigre mediorientale, sta mostrando tutti i suoi limiti. Se vi sono responsabiità del Sultano, esse vanno individuate nel nepotismo in campo economico, con nei posti chiave di settori strategici figure a lui legate da rapporti parentali. Un po'come era accaduto nell'Egitto dei Fratelli Musulmani. Non va sottaciuto il tema del conflitto aperto con la Siria, a cui sommare questo disallineamento tra l'agenda Trump per la risoluzione del conflitto e le prerogative individuate dall'amministrazione Obama. Ciò potrebbe però spingere Ankara sempre più nelle braccia di Putin, con cui esistono canali di comunicazione molto forti anche se non palesi.

D. Quanto sta influendo la partita dei flussi, migratori e finanziari?
R. Nel libro descrivo la globalizzazione come un mondo plasmato proprio dai flussi che sono stati poderosi. Prima della caduta del Muro di Berlino erano sotterranei, come fiumi carsici: poi sono stati determinanti nel segnare l'esito del titanico confronto tra ovest ed est, portando così al crollo del Muro di cui in questi giorni si festeggia l'anniversario della costruzione, il 13 agosto 1961. Considero i flussi gli elementi principali della globalizzazione.

D. Per quali ragioni?

R. Ai flussi di persone e denari, aggiungerei quelli di merci e delle informazioni, reso esponenziale dalla rete delle reti, con il sistema dei social. Questi sono punti centrali. Ma è pur vero che stiamo vivendo una fase di anti globalismo galoppante: in primis abbiamo i flussi di uomini che vanno dalla campagna alla città. Lo dimostra il dato che vuole, per la prima volta da decenni, il numero di uomini che vivono nelle città superiore a quello di chi vive in campagna. Poi abbiamo lo spostamento di flussi dai sud del mondo verso i nord del mondo.

Ma mentre i flussi interstatuali in realtà come India e Cina si mantengono costanti, quelli dai sud verso i nord del mondo trovano sul proprio cammino molteplici ostacoli, quindi si erigono i muri, che evidentemente non ci sono solo tra Messico e Usa. Ogni paese attraversato da questi flussi ingenera una risposta, ma essendo flussi poderosi nessuno sa se questi argini saranno in grado di contenerli. Lo stesso vale nell'ambito finanziario.

D. Delocalizzazioni e speculazioni?

R. E anche i dazi di Trump e le risposte eurocinesi: non sono che un corollario di questo percorso.

D. L'elemento dell'identità dei popoli torna centrale: ma perché è temuto dalle cosiddette intellighenzie?

R. Il caso culminante riguarda l'inserimento dell'identità ebraica all'interno della Costituzione dello Stato d'Israele. E'immagine plastica del ritorno delle identità come elemento centrale nel dibattito in corso. Ma in qualche modo le temono perchè le identità hanno sempre due facce: quella della consapevolezza di poter valorizzare gli asset più forti, pensiamo al made in Italy che contiene al suo interno mille modi del nostro essere: il bello, il cibo, il rapporto con il tempo. Ma le identità uniscono anche dinamiche conflittuali, degli uni contro gli altri, o il meccanismo di esclusione, la caccia al diverso. Per cui occorre un punto di equilibrio per tenere a bada i demoni dell'iper individualismo ma senza tralasciare gli asset positivi che l'identità offre a ciascun individuo.

D. L'Europa con il suo mezzo miliardo di cittadini ha complessivamente più aziende di Usa e Cina ma nonostante ciò vive questa prolungata fase di medioevo 2.0: perché e come uscirne?

R. Una cosa sono le istituzioni comunitarie, una cosa è l'Europa. Stiamo assistendo ad una versione paradossale: i vertici delle istituzioni comunitarie e anche di coloro che rappresentano l'establishment non populista, in questo momento hanno interlocutori di livello bassissimo. Penso al presidente francese Macron, a lady Pesc Mogherini, o al Presidente Jucker. Anche l'immagine della Merkel è parecchio sbiadita. Questa plastica rappresentazione dei vertici si riflette nel passo strascicato di Juncker al di là del motivo, che può essere una sciatica o vulgata sovranista che lo vuole incline al cognac. In entrambi i casi ci mostra una classe dirigente totalmente inadeguata.

Ma guardando indietro è peggio: ricordo Barroso, Presidente della Commissione chiamato a gestire la drammatica stagione del contagio dopo la crisi dei debiti sovrani, rivelatosi incapace. E poi premiato grazie al sistema delle porte girevoli che lo vede oggi sedere nel board di prestigiose banche d'affari. I cittadini si aspettavano dall'Europa protezione e un tetto sulla loro testa durante la tempesta: questo non c'è stato.

D. Per cui in assenza di alternative?

R. Si torna al vecchio schema dello scudo identitario e del sovranismo. Basteranno per poter reggere l'urto di una fase di transizione così complessa dove il mondo, invece, si riorganizza per grandi spazi? La vera sfida sarà quella di saper rigenerare le istituzioni comunitarie, tenendo ben presente che il faro dell'idea europea ci ha regalato 75 anni di pace in un contesto dove c'è ancora un tenore di vita altissimo. Direi inoltre che stiamo vivendo anche una distorsione percettiva, non ci rendiamo conto che questa Europa pur con tutti i suoi limiti rappresenta un modello ancora positivo.

D. Ma i cittadini chiedono una leadership forte...

R. Certo, e che sappia governare la parte impazzita della globalizzazione con tali flussi fuori controllo oltre che mettere ordine. Occorre capire, quindi, se il punto di equilibrio lo troviamo sul livello degli stati nazionali o di realtà federali com sostenuto più volte da Sergio Romano.

 

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