Uno Stato dal doppio fondo, che ha dato voce ai brigatisti carnefici saliti in cattedra nelle scuole italiane come professori di storia e morale. Mentre madri, figli e servitori dell'Italia aspettano ancora un cenno e un ricordo unitario e condiviso.
Non ama i giri di parole Luca Telese, autore e conduttore tra gli altri di In Onda e Matrix, in questa stagione impegnato tutte le mattine su Radio24. E in “Cuori Contro – le ferite sempre aperte di una stagione di piombo” (Sperling & Kupfer, 2017) in libreria da pochi giorni, continua a tessere la tela iniziata con “Cuori neri”.
Ma attenzione, non scivola nel consueto secondo tempo letterario, bensì arricchisce la medesima partita di fatti, storie e anelli che la memoria sciatta di politica e media si rifiuta di scartavetrare a fondo.
Un libro che tocca e non fugge, che scava nelle anime e nelle coscienze di carnefici e vittime, con il piglio dell'inchiesta calda e sentita: semplicemente perché a questo Paese serve, come l'aria, mettere ancora del sale su quelle ferite.
La destra eversiva e la sinistra rivoluzionaria: perché non si è fermato a “Cuori Neri”?
Perché in dieci anni il libro è diventato una specie di calamita che ha attratto decine di storie, sviluppi, epiloghi, variazioni romanzesche. Sentivo che c'era tanto in più da raccontare al punto che valesse un libro. Se avessi dato retta a ciò che mi chiedevano gli editori, avrei dovuto fare un Cuori bis, invece mi sono fermato perché non mi andava di iper realizzare a caldo, dopo quell'onda incredibile. Contemporaneamente ho continuato a creare il mio archivio, raccogliendo materiali. Ad un certo punto mi sono accorto di avere per le mani la possibilità di fare un altro “Cuori Neri” di ottocento pagine.
Cosa c'è in “Cuori Contro” e chi rischia di non esserci?
Vi sono riflessioni fatte durante la collana e incontri con testimoni. Alcuni di loro purtroppo stanno morendo, come la madre di Verbano, quella di Mattei, di Ramelli. Le madri che erano un pilastro del racconto e della memoria stanno scomparendo. E allora mi sono reso conto che anche una testimonianza, messa nero su bianco, è un valore. Come il capitolo sul percorso di coscienza civile della signora Verbano che oggi non c'è più.
Perché “Cuori Contro”? Per onestà intellettuale, per amore verso un pezzo di storia politica italiana o nella speranza che partiti e media tornino a fare dibattito su questi temi?
Solo per un'esigenza personale. Conoscendo i giornali italiani non faranno dibattito, né sul mio libro né su altri. Poco fa ho parlato con la figlia di Pippo Cordella: uno dei capitoli più belli perché Pippo fu il testimone della storia di suo fratello Carlo. Poi è stato un compagno di viaggio, di stimoli, di suggestioni. Era uno di quelli che sentivo più vicino, e ho scritto quel capitolo anche per salvare alcune delle cose che diceva. Magari dal punto di vista documentale può essere meno sconvolgente, ma invece da quello dell'elaborazione lo sento molto mio. In occasione di un seminario di Azione Giovani mi disse: voi non siete nemici del vostro nemico, ma del padre del vostro nemico.
Un altro capitolo è dedicato al memoriale Mattei: l'ha definito un documento pazzesco. Perché?
Emerge la figura di uno dei lati mancanti dell'intera vicenda: Manlio Grillo. Dice che si era inventato tutto, che Lollo alla fine era solo un borgataro, che non vi fu alcuna strage, e accusava per rancore sociale i compagni di un tempo. Da lì, una giornalista freelance, sveglia e in gamba, che andò in Nicaragua per aprire un ristorante, entrò in contatto con questo mondo crepuscolare, quasi letterario, di latitanti sradicati dall'Italia: come dei giapponesi impegnati in una guerra che non combattono più. Incontrò Clavo che si offrì di raccontare in un libro le sue vicende: lei registrò tutti i loro incontri, raccogliendo rivelazioni sconvolgenti sulle origini delle Brigate Rosse, su Tanas, sulle sei persone che erano quella notte a Primavalle, sulla strategia di depistaggio continuata per 40 anni. Un racconto eccezionale, non solo per i documenti di fatti che contiene, con una teoria che va oltre ciò che avevamo immaginato, ma con la certezza successiva che il gruppo dei brigatisti intendeva far esplodere volutamente Potere Operaio. E questi documenti mi friggevano nella cartellina: sono come ferri degli attrezzi che serviranno sempre.
Ustica e Bologna cosa hanno rappresentato, invece?
Nell'introduzione al libro delle zone grigie, dico che una volta chiarita la verità storica sui 21 delitti iniziatici che avevano avviato i gruppi di fuoco degli anni di piombo, l'esperienza di Cuori Neri mi conduceva dritto ad un mondo empirico. Come il primo delitto delle Brigate Rosse a Padova, il primo di Prima Linea e il primo delle Unioni Combattenti, il primo delitto commesso dal gruppo proveniente da Potere Operaio. Con una battuta dico sempre che se l'avessimo saputo prima, forse quattro persone in meno sarebbero andate a rapire Aldo Moro in via Fani.
Insomma, un mosaico che non riguardava solo la destra?
Un libro per gli italiani, in cui ho seguito il filo dei miei interessi storici. Per cui mi dicevo che forse poteva essere attuale per il dibattito sugli anni di piombo ma inattuale sul presente: quindi nell'ultimo capitolo siamo entrati nel racconto del Bataclan ricordando come era nata una puntata di Matrix assieme ad un editoriale a cui tenevo molto. Mi sono reso conto che alla fine le esperienze ci attraversano, per cui senza quel bagaglio rappresentato dagli anni di piombo non avrei avuto la possibilità di comprendere il fenomeno, di oggi, del terrorismo islamico.
Quindi come crede si possa sconfiggere l'Isis?
Come abbiamo sconfitto in Italia le Br: con repressione militare e infiltrati, su cui ho intervistato Patrizio Peci; e prosciugando il brodo di cultura integralista che è l'ideologia del nemico. In questo passaggio credo che l'odio ideologico dei reperti brigatisti e dei spontaneisti armati sia assolutamente identico a quello che nutrono gli odiatori dell'Occidente che hanno ucciso al Bataclan. Cuori Neri mi aveva dato anche una sorta di biglietto di ingresso per una cerimonia straordinaria, un grande happening di memoria: ero stato invitato a Madrid per ricordare la strage di Atocha. Al contrario di noi italiani, che faticosamente stiamo raggiungendo un memoriale difficile, strumentalizzato e contrastato per giunta con una sola cerimonia al Quirinale riservata alle sole famiglie delle vittime, gli spagnoli invece hanno fatto una cosa eccezionale: un evento aperto a tutte le vittime d'Europa, a cui hanno invitato persino me in quanto autore di questo libro. Arrivai lì e scoprii cosa si erano inventati: una grandissima cerimonia, pubblica e civile, non dentro una stanza ma in un parco, con un fiore per ognuna delle vittime. E poi letture e musiche, tra jazz e free style: una cosa impensabile per l'Italia, dove impera una cultura controriformista.
Perché da noi non matura questa consapevolezza?
Mi fa arrabbiare vedere che queste madri, questi servitori dello Stato (tra cui i più dimenticati sono senz'altro gli uomini della scorta di Moro) che hanno attraversato gli anni di piombo trovando la forza dentro se stessi mentre lo Stato aveva un doppio fondo, non sono mai interpellati. Mentre siamo andati a raccogliere le memorie dei carnefici. Per questo ho inteso nel libro fare anche un'altra battaglia culturale: ricordare tutte le volte che i brigatisti sono saliti in cattedra come professori di storia. Attenzione, non sono un talebano: per cui chi si rifà una vita ha tutto il diritto di farlo, purché non pretenda di impartire lezioni sugli anni settanta. Nel libro cito una ex brigatista, Susanna Rondoni, chiamata come esperta di welfare al ministero del Lavoro.
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