Ha scritto Alberto Savinio in Sorte dell'Europa che “liberalismo non è un partito politico né una formula: è un che di mero mutevole, di più profondo e fermo. E'l'uomo dal cuore al cervello, dei sentimenti e dei pensieri, l'uomo che vive per sé e a un tempo per gli altri. E'la fantasia del dovere, è un cristianesimo laico, è chi vede nella donna una creatura umana, una compagna e non uno strumento di piacere o solo la madre dei propri figli. Liberalismo è la vita senza pregiudizi né restrizioni mentali. E'l'arte senza generi, la politica senza partiti, il pensiero senza sistemi. E'la vita senza fede cieca, senza credo unico, senza assiomi o dogmi. E'la soppressione di ogni padrone tanto in terra quanto in cielo. Liberalismo è rispetto e pratica del bene universale senza eserciti né armi, è il momento più alto di ogni civiltà”.
Le parole dello scrittore e pittore nato ad Atene nel 1891 e fratello di Giorgio de Chirico (vissuto tra Atene, Monaco, Parigi e Roma) possono essere utili per tracciare un bilancio del primo anno di Presidenza targata Donald Trump. Ma non per un mero atto celebrativo o per spegnere quella sola candelina: quanto per interrogarsi su come i campioni mondiali di quel liberalismo tanto amato da Savinio, gli Stati Uniti d'America, stiano gestendo la guida Trump e soprattutto stiano vivendo quella spaccatura sociale multilivello che esiste, oggi, nei tessuti cittadini e nelle interconnessioni associative a stelle e strisce.
La vittoria di Trump alle elezioni del novembre 2016 ha certificato in solido un'evidenza, che non può essere spiegata semplicisticamente solo con la contrapposizione partitica tra Democratici e Repubblicani: ovvero il solco, profondo e con radici lontanissime, che c'è negli Usa. Tra le gente, tra i lavoratori, tra le imprese, tra gli stranieri, tra i poliziotti, tra i sindacati e tra i media. E'un fatto, non opinabile né spiegabile solo con le schermaglie partitiche. Le scene di violenza contro i neri non sono un'invenzione, né lo sono le ombre copiose che giacciono sulla politica estera degli ultimi tre lustri.
Il colosso mondiale che ha dettato i tempi della politica e della geopolitica del secolo scorso (e anche di parte dell'attuale) è attraversato da un immenso cambiamento generazionale, che ha trovato il suo sfogo nell'elezione di Trump alla Casa Bianca. Lo slogan America first è buono, forse, per piazze e comizi ma nei fatti nessuno sa ancora in cosa si traduce (qualcosa del genere sta facendo Macron circa gli interessi nazionali prima che europei). Non in un socialismo filantropico, come dimostra la composizione della comitiva trumpiana in viaggio in queste ore in Asia: illustri rappresentanti di quel mondo che il Presidente aveva promesso di combattere.
Ma nessuno se ne scandalizzi: è il mondo, rappresentato da fette di sottomondo con cui, piaccia ideologicamente o meno, si deve trattare. Il punto è nervralgicamente un altro: con quali obiettivi, con quali strategie, con quale progettualità e soprattutto con quale trama? Questo è il nodo che in un anno di Trump nessuno ancora ha sciolto.
C'è troppo bisogno di America nel mondo per non sapere esattamente che volto (reale) avrà la nuova Casa Bianca, con quali sfumature, con quali e quante ingerenze, con quale idee di sviluppo vorrà affrontare le nuove sfide politiche e sociali, con quali interconnessioni tanto con Mosca quanto con Pechino e Berlino intenderà rapportarsi. E non può essere sufficiente un generico disimpegno dal bacino Mediterraneo, così come sta accadendo, per stimolare un eventuale sviluppo dell'Ue e delle sue politiche.
Il dialogo europeo con Washington, il dibattito sui grandi temi legati all'attualità (come l'Isis, i nuovi hub energetici, la Via della Seta), il progetto legato a Vision 2030 nato a Riad non sono dossier che si improvvisano, né con un cinguettio né con slogan o comizi. Occorre progettualità e strategia. L'auspicio è che il nuovo anno si apra con un chiaro vademecum che illustri davvero cosa vuol fare (come e con chi) la Casa Bianca.
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