Francamente, poco appeal hanno alcuni spezzoni del meeting di Davos che stanno spopolando su social. Il premier Conte che offre un caffè a Merkel, siparietti più o meno simpatici, a corollario di un incontro delicatissimo per via della congiuntura in cui l'Ue si trova.
Non è catastrofismo accendere un focus sulle ferite (ancora) aperte del vecchio continente sulla cui guarigione non si sono sentiti proclami significativi, ma sano realismo.
Quando il numero uno della Bce (che il suo dovere, con il bazooka del Qe, l'ha fatto) osserva che la stagnazione non ha fino ad oggi alzato il rischio della recessione, tecnicamente non sbaglia: ma il passo fisiologico, alle condizioni attuali, purtroppo è proprio la recessione, con l'Italia prima candidata ad esserne interessata per via delle sue debolezze strutturali e del suo debito pubblico ormai insostenibile.
I proclami diffusi sulla necessità di una nuova politica estera e monetaria dell'Ue abbondano anche stavolta ma se il frutto è solo nel contratto franco-tedesco di Aquisgrana allora la strada che dovrebbe portare ad un risultato concreto è ancora lunga.
Mancano politiche di svilppo che controbilancino l'austerità, che rafforzino il sistema bancario affrontando di petto i nodi struttutali come i prestiti “rossi”, come le crisi bancarie che hanno interessato l'Italia.
E poi la Brexit, che la stessa Londra sta gestendo senza ratio ma con il secondo fine, per la classe politica inglese, di spodestare Theresa May e aprire la porta di Downing Street a chi si proclama nuovo come Corbyn ma rischia solo un nuovo buco nero. Il governo olandese pare sia prossimo a chiedere poteri speciali per affrontare le possibili conseguenze aziendali: sarebbe la prima volta da 30 anni a questa parte.
A Davos si sarebbero dovute ascoltare anche parole legate alla progettualità, alla nuova euro-visione, alle sfide globali che si stanno già concretizzando come la Via della Seta, la geopolitica del gasdotti, le implicazioni della crisi in Venezuela, il riequilibrio mediorientale dopo gli strappi di Teheran, la partita delle piazze e dei gillet gialli.
Generici impegni non sono più sufficienti.
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