La vulgata secondo cui “siamo a un punto in cui vince il cambiamento” è stata la protagonista delle elezioni politiche in praticamente tutte le cancellerie europee.
Ma la fase pre-urne non è stata seguita da una reale concertazione di questo fantomatico nuovo: prova ne è la reazione della cittadinanza che, non solo si è manifestata con un voto diretto ad altre forze per così dire antisistemiche, ma ha dato ampio respiro a manifestazioni di protesta in piazza, a comitati di quartiere, a sollevazioni sui social. Anche a causa di chi è al potere e non comprende che, senza un'inversione vera di tendenza, non si esce dall'angolo.
Tutte le opinioni politiche, anche le più lontane, convergono su un punto: i fasti europei pre crisi di Goldman del 2008 non torneranno. Per cui varebbe la pena prendere atto che un cambiamento vero occorre non solo a questa Ue, ma finanche a quegli Stati membri che fino a ieri avevano l'ambizione di governarla.
Parigi e le sue pulsioni sociali sono una prima evidenza. Emmanuel Macron, con un partito che non c'era, si è sapientemente infilato tra il fallimento della socialdemocrazia di Hollande e la spinta nazionalista di Marine Le Pen, ma una volta salito all'Eliseo non ha mostrato di avere un copione da seguire. Semplicemente perché, forse, non lo aveva preparato: la sua cavalcata elettorale è stata all'insegna della terza via, della generica alternativa alle spinte destrorse e ai disastri finanziari di Moscovici ministro (oggi Commissario Ue). Gli serviva invece un lungo e approfondito studio su dove traghettare la sua Francia da qui al 2030.
Idem in Germania, dove i delegati della Cdu dopo 18 anni di guida Merkel e dopo il ko alle elezioni regionali in Assia e Baviera, avevano l'occasione di cambiare il timone affidandosi al frizzante Friedrich Merz. E invece hanno scelto l'icona merkeliana di Annegret Kramp-Karrembauer, l'alter ego della Cancelliera, che adesso annuncia continuità e unità. Ma con il rischio di far perdere ulteriori voti ai cristiano democratici perché senza un cambiamento vero, di temi e di teste.
Anche la progressista Germania ha i suoi guai: certo, per ora non si vedono gilet gialli per le strade o per i borghi della Foresta Nera, ma le Pmi mormorano non poco, i pensionati sono in ansia per le nuove aliquote, i lavoratori del comparto automobilistico attendono news sull'evoluzione del diesel gate, i giovani cercano chi parli loro anche di innovazione, verde e ambiente senza per questo dover bussare alla retorica della sinistra di una Spd ormai alla deriva.
Londra è meglio non toccarla: da Cameron in poi è stato un susseguirsi di improvvisazioni e fughe in avanti degne di un cabaret da avanspettacolo, con Winston Churchill che evidentemente si starà rivoltando nella tomba nell'osservare una mancanza pressocché totale di programmazione, analisi e piglio decisionale.
Theresa May appare sempre più come un passante da Downing street e non come la padrona di casa, riaccendendo negli inglesi la fiammella nostalgica per la Thathcher.
Ma il punto è anche questo: il ricambio della classe dirigente non c'è stato in moltissimi paesi. I nuovi non sono stati in grado di leggere in filigrana gli eventi geopolitici come l'avvento dei nuovi player (Cina su tutti), quelli economici (la crisi dell'eurozona) e quelli sociali come il fenomeno migratorio dell'ultimo lustro, che ha segnato per sempre la storia del comparto euromediterraneo.
La chiave si troverà, quindi, in una fisiologicamente lunga fase di studio su obiettivi, scenari e strategie: in assenza della quale al panorama attuale si sommerà solo altro caos e altri gilet gialli. Fuori i secondi...
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