C'è da prenderla col sorriso, è chiaro, così come fatto da Donato Di Matteo che in fondo è stato un signore in questa storia. Ma la storia, in sé, è proprio brutta così come lo sono state altre pagine amministrative regionali abruzzesi.
L'ex assessore che, giunto nella sede del Consiglio regionale ha trovato il suo ufficio chiuso a chiave, rappresenta la plastica raffigurazione di chi patisce un'icona sbruffona, dove si staglia l'ombra della spocchia. Quel potere appiccicoso e gelatinoso da mostrare, come una super rifatta qualsiasi che alla soglia delle 80 primavere sbatte in faccia a tutti zigomi al silicone e brillanti.
E'questa condotta da bulli di provincia che fa specie, è la consapevolezza di voler estendere tentacoli e influenze, nomine e prebende, che porta poi più di qualcuno a certe cadute di stile così macroscopiche, come è stata la storia della stanza dell'ex assessore. Che motivo c'era di tanta “cordialità”? Perché tanto astio contro Di Matteo? Perché spingere il dimissionario componente della Giunta di centrosinistra guidata da Luciano D'Alfonso a minacciare di chiamare i carabinieri?
Infatti solo a quel punto, poi, un collaboratore della segreteria del governatore ha riaperto gli uffici, consentendogli di traslocare. No, non è solo una questione di buone maniere: quelle, ormai, se non si sono imparate in tenera età è troppo tardi.
Qui la cosa è davvero un'altra: è il super ego di chi non sa nulla, in fondo; di chi immagina praterie e ricchezze, ma poi si trova giù in miniera, nel buio e nella polvere di costumi modesti; di chi costruisce castelli di sabbia e poi alla prima onda tutto si sfalda; di chi fa la voce grossa solo per il gusto di ricordare a tutti, così come si faceva giù a Corleone, chi comanda.
Non è bello. Per niente proprio. Ma tant'è. E, soprattutto, è ormai un biglietto da visita immutabile.
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