Ma riformare (e bene) i beni culturali si può: basta far sposare pubblico e privati


L'incidente di Firenze, senza urlare una tantum e poi dimenticarsi del problema, è la logica evoluzione di politiche sbagliate



Per una volta, solo una, il nodo gordiano non è tra chi tifa pubblico e chi tifa privato: ma come il pubblico, tenendo in mano la cloche dei beni culturali, possa interagire con il privato per far finalmente unire in matrimonio cultura e pil: la Francia ci riesce (anche con opere romane e greche). Perché l'Italia no?

Riduttivo svilire il dibattivo sulle nostre opere (musei, chiese, teatri) a una questione partitica o personale relativa al ministro di turno: sarebbe come voler sparare nel mucchio con quell'approsimazione sciatta che ha condotto sino a questo punto. L'orizzonte è un altro e investe la mentalità della pubblica amministrazione che dovrebbe essere rivoltata come un calzino, senza che le Sovrintendenze se ne abbiano. Riforma sì, ma nella direzione giusta e non tanto per cambiare.

Guardiamo Parigi, non per esterofilia, ma per umiltà nell'approcciarci ad un comparto che fa numeri veri. Le politiche culturali di tutto il mondo trovano una summa perfetta in Francia. Il motivo? Il Ministero controlla in pieno il settore dei beni culturali, ma allo stesso tempo stimola l'investitore privato a presenziare attivamente con un ritorno, e quindi ottenendo il risultato sperato: Louvre una spanna sopra tutti, trasporti intrecciati a politiche di marketing e commerciali, infrastrutture dedicate, strutturazione di un modello per il turista/visitatore/cittadino che si sente gratificato. Quindi ci torna anche più di una volta, perché la sua sete di cultura/bellezza/curiosità è ampiamente soddisfatta.

Sì, in Francia si viaggia con il pilota automatico dell'egida dello Stato, con una fortissima presenza ministeriale, che non inficia l'empatia con gli enti periferici e, soprattutto, con il settore privato. Ma mentre in patria analisti e commentatori criticano questa direzione, i numeri la premiano, anche perché nel panorama complessivo gravitano dei soggetti pubblici ad hoc incaricati di due aspetti: la ricerca delle risorse e il dialogo serrato con altri soggetti, imprese e associazioni. Davvero si sposa la cultura con il terzo polo sociale di un Paese, che ha l'onere e l'onòre di farsi attivo per ottenere anch'egli un doppio risultato: tramite il suo profitto agevolare lo svolgimento del ruolo ministeriale.

In Italia, nonostante da alcuni anni qualche passo in avanti sia stato fatto, questa consapevolezza non c'è, perché parlare di privati è ancora una bestemmia: troppo forte l'incrostazione ideologica che resta una zavorra quando ci si approccia alle nuove esigenze. Mettiamocelo in testa: Pantalone ha finito i piccioli e serve inventarsi qualcos'altro.

Questo non significa che bisognerebbe trasformare i Fori Imperiali in una gimkana di gadget o calendari griffati, ci mancherebbe: ma forse immaginare manager culturali impiantati nella cabina di regia delle sovrintendenze a supporto dei professionisti dell'arte presenti in loco. E'la squadra ricca di peculiarità che vince, non l'egoismo di rendite di posizione o i personalismi di chi vuol fare la prima donna.

L'incidente di Firenze, senza urlare una tantum e poi dimenticarsi del problema, è la logica evoluzione di politiche sbagliate. Troppe volte il coro del politicamente corretto intona l'acuto che “la cultura è il nostro petrolio”. Altrettante volte nessuno muove un dito per impedirne malamente lo sversamento in mare.

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