Prossima fermata, Bosforo: perché l'Ue arriva sempre tardi sul luogo del "delitto"


Dall'inizio dell'anno circa 250 diplomatici e quasi 400 burocrati turchi hanno chiesto asilo in Germania: ma a Bruxelles mancano visione e metodo



Dall'inizio dell'anno circa 250 diplomatici e quasi 400 burocrati turchi hanno chiesto asilo in Germania. C'è poco da ricostruire alle spalle del regime di Erdogan: la bolla così certosinamente costruita sul Bosforo, anche con la complicità ottusa di chi in Occidente abboccava al kemalismo 2.0 del Presidente, si è da tempo sfarinata. Non sotto i colpi di qualche servizio segreto di turno, semplicemente per proprie oggettive evidenze.

Ciò che invece lascia perplessi del caso turco (perché di caso geopolitico ormai si tratta) è il ritardo con cui l'Europa se ne è accorta e in modo direttamente proporzionale ai danni subiti da Berlino che hanno fatto scattare l'allarme generale: come se le cose non fossero già note e palesi.

Eccolo il limite palese dell'euroguida: al di là dei movimenti anti euro o di estrema destra e sinistra, che la democrazia protegge e garantisce elettoralmente (almeno fino a quando saremo un'Unione democratica, prima che economica) il nodo risiede proprio nella politica che si dice alta e non sguaiata. E'grazie alle loro defaillances che altri contenitori che intercettano la protesta si sono organizzati e stanno raccogliendo voti (pochi o molti non importa in questo ragionamento).

Se i vecchi partiti avessero prodotto benessere ed un'Unione, politica prima che finanziaria, non staremmo qui a interrogarci sul sovranismo ad ogni elezione nei Paesi membri.

Sono anni che da Istanbul si alzano i venti dell'ultraottomanesimo erdoganiano senza che l'Europa batta un cenno. Risale al 2001 il vademecum di questa politica, il libro “Profondità Strategica” (“Stratejik Derinlik”) firmato Ahmet Davutoğlu, già ministro degli esteri e premier. In quelle pagine fu oggettivizzata la nuova forma di azione per la diplomazia turca, poggiata sul passato ottomano della Turchia. La meta era (ed è) dare fiato all'idea di potenza regionale così come fatto con le dinamiche afghane, egiziane, siriane, libiche e cipriote con le navi oceanografice turche che continuano a infastidire le compagnie (Eni compresa) che si sono aggiudicate lo sfruttmento del gas nella Zee mediterranea.

Ma forse in pochi l'hanno sfogliato a Roma, Berlino o Parigi se solo oggi si “accorgono” di ciò che Erdogan è diventato: uno che, come in un qualsiasi regime sudamericano del passato, fa arrestare giornalisti e magistrati, condanna gli oppositori, si fa costruire una Casa Bianca da mille stanze, uno che appare ligio al dovere e poi si scopre che ha un figlio invischiato nello scandalo tangenti e corruzione che due anni fa ha falcidiato mezzo governo. Uno così, insomma, ha dei problemi: e soprattutto li causa ai vicini.

Oggi, alla luce del golpe farlocco del 2016, il numero di richiedenti asilo non solo cresce esponenzialmente in terra teutonica, ma ha finalmente fatto aprire gli occhi a Berlino, con l'intreccio deleterio delle relazioni tedesco-turche. Ma il problema, al limite, non è neanche di merito, bensì di metodo. Dove sono oggi tutti quelli che (anche in Italia) si spellavano le mani per applaudire Erdogan e chiederne l'ingresso nella grande famiglia europea?

L'Europa, e quindi Berlino che la comanda, guida e traina, non può permettersi di giungere sul traguardo sempre un minuto dopo i fatti. Altrimenti sarà inutile prendersela con Trump, Putin, Kim, Le Pen, Orban o Corbyn.

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