Ha ragione da vendere Angelo Panebianco sul Corriere quando punta il dito contro l'Europa dei leader deboli. Chi ne dubita è invitato a scorrere i nomi delle cancellerie al potere trent'anni fa e dei problemi che avevano: un altro mondo e un altro spessore, in tutti i sensi, con rispetto parlando.
Le sfide di allora, complesse e articolate come quelle di oggi (visto che la storia in soldoni ama ripetersi) venivano lette con lenti diverse rispetto ad oggi. Lenti che celavano occhi che col tempo sono venuti meno.
La polemica politica da bassa cucina era messa da parte quando, ad esempio, il commando palestinese di Settembre Nero massacrò gli atleti israeliani nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera. Oppure in occasione della crisi di Suez. L'emergenza era vista e pesata come tale, quindi affrontata, seppur con mille idiosincrasie e interessi legittimi di parte, utilizzando la politica estera in modo strutturato e armonico.
Invece l'Europa, dalla crisi di Goldman Sachs in poi, passando per quella greca e per il rischio troika nei paesi piggs, ha scelto un'altra via: rispettabile sia chiaro, perché sbaglia solo chi non fa. Ma in fondo non risolutiva, se è vero come è vero che se alcuni dati rivelano una mini ripresa nel breve periodo, è nel medio-lungo che si addensano nubi e cirri minacciosi.
Guardando all'Eliseo tanto caro a Panebianco (“solo il Presidente francese dispone in questo momento della capacità politico-istituzionale necessaria per muoversi efficacemente in Europa”) si leggono ad oggi tre elementi su cui ragionare.
Primo, la sinistra francese sbaglia quando accusa Macron di essere “sempre più il presidente dei ricchi”, dovrebbe invece interrogarsi sul proprio ruolo che, accanto ad un sindacato sordo al riformismo necessario, ha creato un crack attuale, con meno domanda e quindi più esigenza di cassa integrazione. Il punto è: a cosa serve pagare qualcuno per non lavorare, quando invece con quei denari si possono avviare nuove politiche per favorire altri investimenti?
Tutta lì la questione: se andare avanti con la mentalità da assistenzialismo puro, che alla lunga droga il mercato, oppure se lavorare davvero su pil e competenze, ferma restando la partita sporca giocata alla voce concorrenza negli ultimi anni dai cinesi. E non sarebbe intellettualmente onesto silenziarla.
Secondo, la gaffe sugli operai di Macron non aiuta: "Invece di piantare casino dovrebbero cercarsi un lavoro". Forse la giovinezza del Presidente, unita al fatto che è nato partiticamente dal nulla, ha influito negativamente nel dettare una battuta infelice, che va stigmatizzata: va bene stimolare concorrenza e curricula, meno mettere altri tizzoni in un bracere che non vuol spegnersi per nulla al mondo, come dimostra a casa nostra anche il caso Ilva.
Terzo: all'Eliseo, forse forse, della crisi della socialdemocrazia europea non interessa poi molto visto che, come insegna il caso libico e quello legato a Fincantieri, se c'è un passo che Macron ha fatto prima di altri è proprio quello, diretto, verso un sovranismo mascherato. Certo, debitamente nascosto dietro discorsi leaderistici iper democratizzati, come quello sulla collina della Pnice ad Atene, o come le avances europeiste lanciate alla Cancelliera Angela Merkel alle prese con la sua coalizione Giamaica. Ma, nei fatti, netto e su una strada già asfaltata.
Ora sarà utile sondare come quel suo nazionalismo potrà coincidere con il senso europeo degli stati membri, del Ppe non più allineato come un tempo all'ammaccato Pse, con l'esigenza merkeliana di rimodulare le proprie alleanze, con i dati sulla ripresa che andrebbero confrontati con ciò che davvero succede in Grecia e nel mezzogiorno d'Italia dove, alla faccia degli indigenti veri e della spending review, le Regioni proseguono nel loro banchetto quotidiano fatto di moltiplicatori di partecipate e gettoni distibuiti con poca parsimonia.
Per cui attenzione a cercare il salvatore della Patria Europa lì dove gli interessi personali (e, per carità, legittimi) di bottega saranno sempre al primo posto.
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