Libia, tra il fallimento della politica e l'azionismo verso i pozzi


Lo dice la storia: il Paese e le sue tribù anelano all'uomo forte. Se altra strada non c'è, tanto vale mettersi l'anima in pace


di Francesco De Palo
Categoria: Francesco De Palo
27/02/2019 alle ore 10:15

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Conferenze, meeting e incontri non solo serviti a ricomporre un quadro unitario e omogeneo in Libia. Per cui adesso sul terreno avanzano le truppe, le fughe in avanti o, come le vede qualcuno dei protagonisti, i gesti forti per un popolo che in fondo ha bisogno di un dittatore.

La scomposizione istituzionale in Libia ha un nome e un cognome, e ignorarlo non contribuisce a tratteggiare un quadro sufficientemente chiaro: il petrolio.

In passato il collettore era il Colonnello Gheddafi. A otto anni dalla rivoluzione che lo depose con le bombe sganciate dall'Eliseo non si riesce ancora a trovare una quadra, perché la politica è debole e le richieste di altri players sono sempre più forti.

Il blocco di uno dei principali giacimenti, Sharara, che dal dicembre scorso è fermo, ha suscitato la reazione dell'uomo forte della Cirenaica: quel generale Khalifa Haftar che in occasione della conferenza di Palermo dello scorso autunno decise solo all'ultimo minuto di essere presente in Sicilia, come se in fondo non avesse fiducia nella riuscita dell'evento.

Il generale ha liberato Sharara e lo stesso ha fatto con Elephant, nel sospetto del suo rivale, Al Serraj appoggiato a Tripoli dalla comunità internazionale. Che le mosse dell'Onu non siano state foriere dei risultati auspicati è nei fatti di chi in questi quattro anno si è sporcato le mani con il dossier libico. Prima Bernardino Leon che al termine del suo mandato è andato ad occupare un ruolo di primo piano in un'istituzione saudita; poi il tedesco Martin Kobler, scelto dalla cancelliera Merkel che non ha prodotto un solo vantaggio. Infine l'attuale Salamè che, da Palermo in poi, pare abbia smarrito anche la fiducia nella sua mission.

E allora se è vero come è vero che la storia si ripete, l'uomo forte torna a fare capolino in Libia, non fosse altro perché per mettere un punto al caos e provare a tessere una nuova tela va trovato un accordo tra gestori dei pozzi, tribù e players internazionali. Inutile girarci attorno o impiegare energie e tempo per vertici e conferenze. L'obiettivo è un altro.

Non cerchiarlo in rosso significa, ancora una volta, ritardare la soluzione di questo maledetto puzzle. A meno che non convenga di più stazionare in questo limbo: e non sarebbe un'ipotesi da scartare a priori.

 

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