Al di là di come si chiuderà nel merito la crisi politica in Albania, con i deputati dell'opposizione che annunciano le dimissioni e con le manifestazioni di piazza contro il governo socialista guidato da Edi Rama, spicca il fallimento nella gestione occidentale del post guerra nella ex Jugoslavia.
Il costone balcanico, frastagliato e in balia di disagi sociali, fatica a imboccare la strada della normalizzazione istituzionale per via del corto circuito palazzo-popolo. La piazza albanese segue a ruota quelle romene e serbe. Due location altamente sensibili che, in tempi diversi ma con il medesimo vettore, hanno esternato tutto il proprio dissenso dalle stanze del potere e da provvedimenti legislativi deleteri, come quella legge proposta dal governo di Bucarest che di fatto salvava evasori e tangentisti.
Sono passati i tempi della cortina di ferro, quando quel fazzoletto d'Europa così affascinante e controverso, che prende il nome di ex Jugoslavia, era teleguidato dal Pcus e solo da quello. La svolta europeista, però, ha imboccato la strada degli strappi accanto a quella dei parametri legati all'allargamento tout court.
Poco si è fatto per tentare di sanare le deficienze che esistono tra fazioni e gruppi religiosi che, evidentemente, faticano a trovare una modalità di serena convivenza. E il caso del nome Macedonia ne rappresenta un'icona, con entrambe le popolazioni in sofferenza rispetto alla decisione della politica.
Il mega player che in questi anni si è silenziosamente introdotto nei Balcani, la Cina, ha fatto il resto, avviando una serie di investimenti strutturali improcrastinabili (come ferrovie, strade, ponti) ma con il rischio che la politica locale venisse affetta ancora di più dalla smania di potere che a volte finisce per mortificare le esigenze dei cittadini. Il caso albanese è lì protofanico: gli indicatori macro economici sono incoraggianti, ma quelli relativi al funzionamento della giustizia, alla libertà di stampa e alla lotta agli stupefacenti molto meno. Così come negli altri paesi che aspirano ad entrare nell'euroclub.
Come uscirne allora? Certamente non con la fretta di aprire i negoziati di adesione senza una regia d'insieme, perché in quel caso si osserverebbe per l'ennesima volta il grande vulnus dell'Ue che l'ha resa debole, ininfluente e nel mirino di sovranisti e di cittadini inquieti. La mancanza di una leadership riconosciuta e lungimirante, che sia credibile, affidabile e non dal fiato corto.
Non è un caso che le piazze di Tirana esplodano ora, alla vigilia di una stagione assolutamente peculiare per la stessa Ue. Inutile rimpiangere Churchill o De Gaulle, però neanche si può applaudire l'attuale classe dirigente che ha gestito la guerra nella ex Jugoslavia...
Le prossime elezioni di maggio saranno una primizia, perché vedranno un cambiamento non solo nelle intenzioni di voto (così come suggeriscono tutti i sondaggi) ma nella futura gestione dell'istituzione Ue. Che ha dinanzi a sé un bivio non da poco: cambiare pelle per non perire.
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