Se trent'anni fa l'euro è stato l'obiettivo dell'Ue oggi, guardandone i frutti, a cosa punta il vecchio continente?
Dati alla mano, con stagnazione e recessione in agguato, con la piazza distante anni luce dai palazzi del potere (vedi pasticcio Brexit) e con il peggioramento dello status quo dei singoli, verrebbe da dire proprio a nulla. Ma le celebrazione per i due decenni della moneta unica possono essere l'occasione per fare un bilancio e per cerchiare in rosso chi sono stati gli asini in questa classe e chi sono stati i primi.
L'idea era buona, ma è stata applicata male. Non è necessario essere economisti di primo pelo per certificarlo: cittadini e imprese si sono impoveriti, alcuni prezzi in quelle settimane di passaggio dal vecchio conio all'euro sono stati raddoppiati senza che alcuno controllasse, in pochi si sono arricchiti e oggi tutti ne pagano le conseguenze.
Fino a poco tempo fa alzare un dito e osservare le deficienze strutturali dell'euro era un'eresia: oggi, visto che non possiamo uscirne, tentiamo almeno di difenderci da una situazione che si preannuncia parecchio calda.
La stagnazione, italiana ma anche europea, potrebbe presto tramutarsi in recessione con altri frutti malsani di una pianta che è stata annaffiata in maniera errata da chi ha avuto la presunzione di saper governare. E non lo ha fatto al meglio.
Per onestà intellettuale va ammesso che paesi “al limite”, come Grecia, Italia e Portogallo, ci hanno messo del loro ma la catena è tale proprio perché presenta anelli deboli (ieri in Borsa giornata pessima per i titoli bancari, dopo la stretta della Bce sui crediti deteriorati: Ubi -4,97%, Unicredit -3,16%, Intesa -1,3%).
E allora mentre ci si avvicina al voto europeo, le parole del presidente della Commissione Jean Claude Juncker che ammette gli errori in Grecia odorano di rancido. Perché fanno male.
"Non siamo stati sufficientemente solidali con la Grecia e con i greci" durante la crisi del debito. Così ha detto nel suo intervento in Aula a Strasburgo per la celebrazione dei vent'anni dell'euro.
"Mi rallegro di constatare che la Grecia, il Portogallo ed altri paesi hanno ritrovato se non un posto al sole", almeno "un posto tra le antiche democrazie europee".
Un'ammissione tardiva che si somma da un lato, all'iper pressione fiscale che c'è oggi, con l'iva alle stelle e con tasse praticamente su tutto e, dall'altro, con il vero guaio della crisi greca: a pagare sono stati gli stati membri che hanno prestato (l'Italia è esposta per 40 miliardi) per chiudere una voragine infinita, oltre a cittadini vessati da sette tagli a stipendi e pensioni. E nessuno sa con certezza se entro il 2052 la Grecia sarà in grado di restituire quei denari.
Non c’è scampo per il vecchio continente, a metà strada tra l’eterna vocazione geopolitica, a oggi in verità solo sulla carta, e di molo messo lì in quel grande lago salato che è il Mesogheios, naturale crocevia tra Africa e Oriente.
Quale dunque la carta di identità che l’Unione dovrebbe sfoggiare per non perire? Umile ma determinata, collaborativa ma non genufessa alla superpotenza di turno, protesa al dialogo inter-sociale ma conscia della propria storia e del proprio bagaglio di cultura, sin qui poco sfruttato.
Per questo, un piano Marshall dedicato all’intera area euromediterranea (con l’Italia al centro) potrebbe rappresentare la vera occasione di riscatto dell’Europa. Ma non bonus, bensì programmi. Con il belpaese a recitare l’intrigante ruolo di big chief.
Una sorta di canale di Panama che colleghi idealmente Bruxelles al Nordafrica, agli avamposti che si affacciano sulla sponda mediorientale, dove si stanno consumando cambiamenti epocali ignorati da quella cabina di regia che, fino ad oggi, ha sbagliato tantissimo.
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