Lasciamo perdere (ma solo per un nanosecondo) il simbolo assoluto del 10 febbraio che, nella storia moderna d'Italia, rappresenta quell'icona contro la vergogna titina e l'insabbiamento colposo effettuato dalla sinistra al caviale e dalla gran parte dei media italiani, “destati” dal torpore sulle foibe solo dopo la Legge Menia.
Ma celebrare le elezioni regionali abruzzesi anticipate in febbraio non si comprende proprio: febbraio vale maggio, quando ci saranno le europee e, quindi, se qualcuno non voleva votare in autunno o in inverno per meri calcoli elettorali avrebbe potuto optare per la primavera, quando con la concomitanza del rinnovo dell'europarlamento, ci sarebbe stato anche un risparmio per le tasche di Pantalone.
E invece anziché votare in novembre, come logica e buon senso avrebbero voluto, ecco la mossa del cavallo. “Diecifebbraio”, come dire, scacco al re e uno schiaffo ai martiri delle foibe.
La contingenza abruzzese rappresenta un negativissimo unicum, in primis legato alla sgrammaticata prassi di chi, già la notte del 4 marzo, avrebbe dovuto dimettersi.
Non importa se la legge consentiva un rinvio, spesso conta più la correttezza di chi si guarda allo specchio e cammina a testa alta, che codicilli e polverosi cavilli.
Ma questa è stata la terra degli azzeccagarbugli, degli amici degli amici, delle poltrone girevoli di cricche consunte da anni di curricula vuoti, di signori nessuno che hanno avuto i loro 15 minuti di notorietà, conditi da post sui social che nemmeno bimbi di sei anni scrivono senza rispettare l'abc del social management.
Insomma, questa storia semplicemente rispecchia il passato quinquennio amministrativo: né più, né meno. E chi si aspettava altro, non resti deluso.
In fondo questa cifra politica è come quell'albero che, anziché fruttare nettare e doni zuccherini, produce chicchi di amarezza e germogli di zizzania.
Destinati (per sempre) a non piacere.
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