Vi consiglio questo film, anche se è difficile e ardito e continuerete a pensarci senza davvero trovare il bandolo definitivo. Senza capire chi fosse Lazzaro, se un santo, un Gesù del nostro tempo, il personaggio buono di una favola o di una parabola moderna, ambientata tra lo scorso e questo secolo. Un indizio lo danno i titoli di coda, dove leggerete che la storia è ispirata al racconto di San Francesco e il lupo.
C’è un lupo in effetti, che compare in due momenti importanti della narrazione, un animale selvatico e buono, solitario; che in entrambi i casi simboleggia il passaggio dalla vita alla morte, e viceversa. Come se non fossero stati definitivi, ci si potesse risvegliare e ricominciare una nuova esistenza, in un tempo diverso. A distanza di cinquant’anni. Tutti sono cresciuti, invecchiati; si sono allontanati e perduti. Lazzaro, miracoloso, è rimasto il ragazzino che era nel 900: la prima parte del film.
L’ambientazione è particolare e difficile da vedere al cinema: una comunità di mezzadri, contadini analfabeti, in una campagna del centro Italia (tra il Lazio e l’Umbria). Sono gli anni ottanta (li riconoscete dal colore della pellicola, dalle rare automobili, dal walkman, dal motorino, forse un Garelli).
Lavorano duramente, coltivano la terra, senza alcuna speranza di andarsene via da quei luoghi, da quella proprietà appenninica e chiusa: “L’inviolata”, si chiama la villa della marchesa, che è anche la padrona assoluta di quella cinquantina di anime, rinchiuse in un medioevo senza inizio né fine, i cui confini invalicabili sono garantiti dalla completa ignoranza del mondo che li circonda. Lazzaro si distingue perché, molto semplicemente, è un uomo buono. Si dedica al lavoro ed al suo prossimo senza risparmiarsi, senza vedere il male o accorgersi di essere sfruttato.
Stringe un’amicizia unilaterale e non ricambiata con Tancredi, l’unico viziatissimo figlio della marchesa. Un personaggio simbolico dell’egoismo e della spregiudicatezza dei più, che però non riesce ad intaccare la purezza di Lazzaro. Una curiosità: i protagonisti che interpretano i contadini sono veri lavoratori della terra, selezionati dalla regista con dei provini in cui gli si chiedeva semplicemente di essere se stessi. Il film è diviso in due parti, e nella seconda c’è un salto temporale e di luogo. Il mondo urbano di oggi è rappresentato in modo impersonale, crudo. Il progresso non è servito a nulla e soprattutto non è servito ad eliminare le diseguaglianze.
I poveracci restano ai margini, con l’aggravante di non avere più il rapporto diretto con la terra, di non sapere più quali piante si possono mangiare crude o cuocere. Senza ricordare come si coltivano le parate. La difficoltà di codificare la trama ed il suo significato non vi impedirà di uscire dal cinema con molto amaro in bocca e con un solo pensiero: menomale che c’è Lazzaro, e menomale che c’è il lupo.
Un motivo in più per dire “viva il lupo” e non “crepi” quando vi augurano di andare tra le sue fauci. Per me 4 ciak
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