Vi sono frangenti nei quali il labile confine tra l'uomo ed il professionista vacillano, specie quando la propria professionalità è al servizio dell'arte. E' ciò che mi accade dinanzi alle opere di Annunziata Scipione, pittrice e scultrice abruzzese riconosciuta tra le massime esponenti dell'arte naif, spentasi il 24 aprile scorso al termine di una lunga vita trascorsa tra il cavalletto e la sua amata campagna.
Madre e nonna, prima contadina e poi artista come essa stessa amava ricordare, la sua propensione all'arte restò infatti latente fino all'età di 42 anni, per poi emergere in maniera spontanea e quasi causale nei ritagli di tempo sottratti a quei lavori domestici che la rigida educazione dell'epoca vedeva come prioritari.
Prima di tutto ciò, solo gli “scarabocchi” da bambina, a carbone sui muri, quando ancora non aveva una matita, e le figurine in creta modellate seguendo il gregge, durante quell'infanzia ad Azzinano di Tossicia, paese che fu tutta la sua vita ed oggi la omaggia costellato com'è dei suoi affreschi murali.
Le opere della Scipione hanno il potere di mettere a nudo l'anima di chi le contempla, spogliandola di ogni effimero accessorio e lasciandola limpida e pura, vergine come quella di un pargolo preso per mano e condotto a conoscere il mondo, con tutta la gioia e lo stupore di una ritrovata fanciullezza.
Nello scorrere degli occhi su quei dipinti, lungo il pentagramma di quella perfetta sinfonia cromatica, attraverso le trame di quella dolce narrazione, la mia mente diviene d'un tratto essa stessa una tela bianca sulla quale Annunziata dipinge il racconto d'un ricordo che è suo, ma percepisco come mio, nel contestuale lieve sussultare della pelle, percorsa da un brivido; così affondo lo sguardo in quelle corpose pennellate, nel tentativo di definire quella percezione, ed in quel colore denso che lentamente delinea scenari, profumi e canti di una millenaria tradizione agreste tipicamente nostrana fatta di giochi (“A nascondino”, 1980), di attività ordinarie ormai divenute memoria e tradizione (“Formaggio all'aperto”, 1998, “Il telaio”, 1980, etc), io intravedo il volto sfocato di mia nonna, avvolta nel suo grembiule a fiori, e percepisco nuovamente la sua voce che amorevole narrava quella medesima vita fatta di lavoro contadino, di sacrifici, di terra e sudore.
Le immagini della mia infanzia si concretizzano così attraverso le mani di una persona mai conosciuta ed io mi ritrovo spoglia della mia veste di storica dell'arte per essere essenzialmente quella stessa bambina d'un tempo, meravigliata e curiosa, tesa all'ascolto.
E subito realizzo che è questa la visione che rende grande un'artista, è questo il sacrale potere dell'arte: Annunziata Scipione attinge il suo pennello alla nostra memoria collettiva, a quel “ricordo, o insieme dei ricordi, più o meno consci, di un'esperienza vissuta o mitizzata da una comunità vivente della cui identità fa parte integrante il sentimento del passato" - per dirlo con le parole di Pierre Nora - e lo fa con lo stile dei migliori pittori naif e con la dignitosa fierezza di una donna che della vita rurale abruzzese ha assaporato ogni odore ed ogni suono, ogni cangiante colore.
La profondità della sua pittura è proprio in questo, la densità di significato delle sue opere è nel loro non essere immagini desunte da un superficiale ed estemporaneo sguardo, ma attimi di un vissuto sedimentato che riemerge con sorprendente forza espressiva, la medesima che segnava il suo volto quando rivelava che «ogni quadro ha la sua storia perché io ho dipinto quello che ho visto intorno a me e quello che ho vissuto e ancora adesso ricordo: il bosco, la campagna, la vita dei contadini», tanto che «non ho bisogno di guardare fuori dalla finestra per dipingere».
Annunziata Scipione ha l'innato potere di sfiorare l'anima in punta di pennello come una carezza, di rievocare le nostre radici con la medesima amorevole dolcezza dei racconti delle nostre nonne ma con la poetica ed il lirismo di una pittrice d'immenso talento, che non è solo sentimento ma è anche perizia tecnica e sublime stile; quando un pittore di Tossicia vide i suoi dipinti ed esclamò di vedervi la mano di Van Gogh, raccontava, lei sorrise divertita ed a tratti incredula.
Taluni l'hanno definita l'erede di spirituale di Ligabue, ma Annunziata non è erede di nessuno, se non di se stessa, ed a nessuno deve, se non alla propria memoria, alla propria acuta sensibilità, al proprio indiscusso genio fiorito distante dai circuiti intellettuali ed appunto per questo assolutamente originale, personale ed ineguagliabile.
Ella lascia a noi tutti un patrimonio immenso, quello di un tratto d'Abruzzo che resterà in eterno impresso nelle sue tele.
Ed il suo sorriso lieve, e lo sguardo gentile, e la semplicità e la modestia tipiche di quella consapevolezza di sé, che è propria solo dei più grandi artisti.
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