Un corto circuito inquietante tra politica e magistratura sull’inchiesta di Bussi è stato portato alla luce ieri dal Fatto quotidiano con un articolo di Antonio Massari: stralci di verbali di interrogatorio, mai venuti alla luce prima, raccontano una pagina buia di quel processo. Una pagina buia soprattutto per l’Abruzzo.
“Nel 2014 il giudice Camillo Romandini parla del processo di Bussi prima della sentenza con il governatore abruzzese Luciano D’alfonso, che peraltro rappresenta la parte civile e il tutto avviene a cena, a casa di amici comuni”, scrive Massari.
Ciò che avviene dopo è surreale: D’Alfonso riferisce all’avvocato dello Stato,Cristina Gerardis, che poi riferisce a sua volta ai pm titolari del processo, ciò che ha saputo da D’Alfonso. I pm convocano il governatore in procura e di questo si occuperà più tardi, sempre grazie al Fatto quotidiano, la procura di Campobasso. La pm Annamaria Mantini titolare del processo di Bussi con Giuseppe Bellelli, viene sentita dalla procura di Campobasso come persona informata sui fatti:
“L’avvocato dello Stato Gerardis… mi disse… che dal presidente della regione Abruzzo aveva appreso che questi aveva avuto un incontro… con Romandininel corso del quale avevano avuto un colloquio sui temi del processo… Decisi di interloquire con il presidente della Regione. Questi venne presso il mio ufficio e, presenti i colleghi Bellelli e Di Florio… confermò l’incontro… disse che Romandini… dopo aver elogiato la professionalità e l’impegno sia degli avvocati, inclusa l’Avvocatura dello Stato, sia dei pm, aveva concluso assumendo che gli avvocati (della difesa) erano stati particolarmente efficaci…”.
Mantini ha un presagio, aggiunge il Fatto: “Riferii al procuratore De Siervo che non presagivo una conclusione del processo il linea con le nostre conclusioni”. Come motiva il presagio al procuratore? “Rappresentando… che… Romadini ne aveva parlato con la politica, con ciò intendendo alludere al D’Alfonso. Io accennai… che un’eventuale ricusazione non era opportuna, senza far riferimento all’episodio ora descritto”.
Quindi, per non raccontare l’episodio che vede protagonista D’Alfonso e lo stesso giudice che si incontrarono a cena, si evitò di ricusare il giudice Romandini.
Le conclusioni del Fatto sul comportamento della Mantini sono le seguenti: “1) il colloquio con D’Alfonso l’ha portata a pensare che vincerà la linea della difesa; 2) le parole di Romandini al governatore per come sono state riferite da D’Alfonso, hanno delineato l’orientamento del giudice”. Eppure Mantini e Bellelli, che ha confermato la ricostruzione davanti ai pm di Campobasso, decidono di non ricusare il giudice. Anzi, Bellelli dice di essersi preoccupato ma di aver ritenuto che “non ci fossero i presupposti di una ricusazione”. Presagi e preoccupazioni si materializzano poi, come sappiamo, nel dicembre 2014 quando la Corte di assise di Chieti, presidente Romandini, assolve i 19 imputati, risultato poi ribaltato in appello.
Ma il corto circuito tra politica e magistratura si ripete: lo racconta sempre il Fatto che raccoglie le testimonianze di alcuni giudici popolari.
“Romandini, durante una cena con loro, pochi giorni prima della sentenza, li avverte: condannando per dolo gli imputati, in caso di assoluzione in appello, le giudici potrebbero dover risarcire i danni”.
Ma nessuna norma lo prevede. Per questi episodi Romandini è sotto processo disciplinare mentre è stato archiviato in sede penale. Sempre dagli atti di Campobasso si scopre che D’Alfonso fece un’altra telefonata:
“D’Alfonso – racconta ai pm la Mantini – mi disse che un giudice popolare… doveva riferire delle cose sul processo. Replicai: “Presidente non vada oltre. Sono un magistrato, non ricevo comunicazioni informali né tantomeno dichiarazioni da parte del giudice del processo”.
Il mese dopo interrogato come persona informata sui fatti, D’Alonso non fa cenno a questo episodio. Né il pm del Molise gli chiedono nulla.
ps: Una pagina bruttissima e inquietante della nostra storia.
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