Facebook, Trump e le elezioni Usa: viviamo in una bolla e ci raccontano un sacco di balle


Non c'è nulla - ma proprio nulla - di vero in quel che si sente, si vede e si legge in questi giorni su questi argomenti



Facebook, Trump e le elezioni Usa. È in piena attività la fabbrica delle balle. Bugie, falsità, chiamatele come vi pare, ma occhio a non cadere nella trappola! Perché non c'è nulla - ma proprio nulla - di vero in quel che si sente, si vede e si legge in questi giorni su questi argomenti.

Sono tutte balle preconfezionate, utili allo scopo. Balle figlie della medesima bolla nella quale, purtroppo, trascorriamo volenti o nolenti la nostra esistenza.

La bolla del politicamente corretto che spiega a noi tutti la rava e la fava, che maschera e trasfigura qualsiasi nefandezza in nome della primazia liberal, ma che insorge e s'indigna se viene scoperta, sconfitta, superata dalla realtà.

Perciò, intanto diamolo un merito a Donald Trump. Perché nella battaglia contro l'ipocrisia liberal lui, più d'ogni altro, se l'è guadagnato. Se the Donald e la sua squadra, infatti, non avessero frantumato ogni sfrontatezza e ogni sondaggio, battendo la petulante Hillary Clinton e insediandosi -tra lo stupore e l'indignazione di ogni democratico che si rispetti - alla Casa Bianca, nessuno mai avrebbe detto o saputo alcunché delle "nefandezze" e dello "scandalo" emerso ora dalla riverita piattaforma Facebook. Ovvero del fatto - ignoto solo ai deficienti - che i social gestiscono come gli pare ogni dato di cui entrano in possesso. A cominciare dai lucrosi dati personali.

Certo, quella social é una giungla; certo, non c'é nulla di trasparente; certo, è una invasione continuativa della privacy: ma, dove cavolo erano nascoste tutte queste ancelle frignanti quando Barack Obama vinceva le primarie e le presidenziali grazie ai Big Data che moltiplicarono all'infinito la sua raccolta fondi e il suo "yes we can"?

Dov'erano inguattate queste prefiche della libertà conculcata quando quel giovanotto di Mark Zuckerberg, proprio grazie alla vendita dei dati personali immagazzinati su Fb e al complice interesse delle intelligence di mezzo mondo, diventava l'uomo più ricco del pianeta?

Non c'era nessuno, prima, che se ne curava; e se qualcuno protestava o metteva in guardia contro le enormi violazioni dei social (Chamath Palihapitiya, l'ingegnere di cui anche questa rubrica si occupò), il suo allarme contro la dittatura degli algoritmi veniva silenziato immediatamente.

"La verità è che tutti sapevano tutto", ha chiosato Steve Bannon. Che sarà pure un cattivissimo, orrido populista ammiratore del Duce (dal quale potrebbe aver copiato lo slogan "Make America great" aggiungendovi "Again"!). Ma che è pure l'unico che, sulla vicenda, non racconta balle.

 

L'innocente