Questo 2018 cari cinefili è cominciato davvero alla grande. E vedere l’ultimo film di Guadagnino è un’esperienza a cui non sottrarsi. Per una serie di ragioni estetiche e sostanziali, di pura bellezza filmica e di contenuti. Di immagini e di parole.
Non può esservi sfuggito che la sceneggiatura è di James Ivory: ed infatti, nonostante la storia sia ambientata “da qualche parte in Lombardia” nel 1983, ci sono diversi momenti in cui, non sapendolo, pensereste di “trovarvi” nella campagna inglese.
O in una vecchia casa di signori britannici, tra libri, caminetti e oggetti antichi. Alla raffinatezza immediatamente percepibile agli occhi dell’autore d’oltre Manica si sposa alla perfezione la capacità introspettiva del regista che si focalizza sui personaggi con profondità, tanto da fare “sentire” in modo tattile allo spettatore ciò che provano i protagonisti del racconto.
Lo sconvolgimento dell’innamoramento e dell’irrefrenabile attrazione fisica, l’ansia nel contare le ore che separano il presente all’incontro della mezzanotte, il senso di vuoto del distacco, l’incertezza sull’essere se stessi. Insomma, forma e sostanza.
La storia (tratta dal romanzo omonimo di Andrè Aciman) è quella dell’incontro tra Elio, un diciassettenne geniale, capace di suonare e comporre, colto ed appassionato, e Oliver, studente americano di ventiquattro anni, bello e disinvolto, ospite dei genitori del ragazzo nella villa di famiglia, vicino Crema.
Ogni anno il padre di Elio, un illuminato professore di archeologia ed arte antica, invita per la bella stagione ed in occasione delle vacanze un giovane universitario straniero sempre diverso, ne vuole condividere le abitudini e la cultura: una scommessa per fare nascere amicizie nuove e stimolanti in cinque settimane di condivisione di vita.
Oliver viene dal New England, è affascinante ed energetico, piace da morire alle ragazze, piace agli anziani del paese, piace alla governante della casa. Piace soprattutto, intimamente ed in modo sconvolgente, a Elio. Una pellicola che dà la sensazione visiva della fotografia analogica, con la morbidezza dei colori vecchi di trent’anni, racconta quei giorni d’estate, la scoperta della vita, del corpo e delle sue gioie, del cuore e del suo strazio.
I paesaggi sono quelli padani, inusuali nel cinema: c’è il fiume ed il lago, una piccola città di mattoni rossi con il monumento ai caduti del Piave, ci sono le strade polverose percorse in bicicletta dai protagonisti in un inseguimento reciproco che sembrano preliminari di un contatto fisico voluto e temuto. La musica accompagna ogni momento della storia, d’altronde Elio è un orecchio puro, le note gli scaturiscono dalle dita, le pensa, le scrive, le suona.
La cosa più bella del film, per me: il discorso del padre al ragazzo, in un momento di profondo scoramento. Il discorso che ogni figlio vorrebbe sentire, quello che ogni padre dovrebbe sapere fare. E la frase del film la dice proprio lui, il padre, durante quel discorso: “la natura ha astuti metodi per scovare il tuo punto debole”.
Ma il punto debole è anche la via d’uscita della propria vera personalità ed avere il coraggio di essere se stessi è l’unico modo per cercare, almeno cercare, di essere felici. Il personaggio secondario più prezioso è la ragazza innamorata di Elio: nel suo gesto, che non vi anticipo perché è quasi alla fine (e come dicono gli appassionati di Netflix, non voglio spoilerare), si manifesta tutta la sua capacità di comprendere l’infinito valore dell’amicizia. Uscirete dal cinema storditi da tanta bellezza, passione, perfezione. Non ve lo perdete, vi prego.
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