Riposa adagiato sulle pendici di un colle tra il vallone del Rio Secco e l’ampia vallata del Sangro, il magnifico borgo medievale di Roccascalegna.
Un borgo antichissimo, le cui origini si perdono nella storia e si fondono al mistero, quello che aleggia intorno al mito della antica città romana dalla quale avrebbe avuto origine, Amnium, fondata nel 300 a. C., i cui abitanti diedero vita a diversi villaggi ed i cui fantasmi vagherebbero ancora nei territori bagnati dal fiume. Sopra di esso, sulla sommità di una rupe calcarea che si eleva al cielo avvolgendosi vorticosamente come una spirale, si erge superbo e solenne il castello, simbolo dell’architettura fortificata abruzzese.
L’impianto ad oggi visibile risale in gran parte al periodo Angioino – Aragonese (XV secolo), ma palesi ed evidenti sono le stratificazioni risalenti a varie epoche, che ci narrano la complessa e millenaria storia di questo insediamento.
L’origine risale con ogni probabilità ai Longobardi, quando le esigenze difensive resesi nate a seguito dei continui scontri con i Bizantini, a cavallo del V e VI secolo, spinsero la popolazione ad arroccarsi sulle alture. In epoca più tarda il maniero appartenne a diverse importanti famiglie del territorio, dai Caraffa ai De Corvis, dai Nanni ai Nanni – Croce, che lo donarono infine al Comune, nel 1980. Dopo un lungo periodo di abbandono, si è dato il via ad un imponente opera di restauro che nel 1996 ha reso nuovamente fruibile il castello, oggi adibito a centro espositivo e contenitore di eventi musicali, teatrali e culturali.
Il complesso è caratterizzato da un impianto articolato ed irregolare in cui la mano dell’uomo e quella della natura si fondo in un unicum di indiscutibile valore ed inspiegabile incanto, uno dei più interessanti e stimolanti organismi ossidionali d’Italia, nel quale labile è il punto esatto di confine tra roccia, vegetazione ed edificio.
Dal cosiddetto piano di San Pietro, una lunga gradinata scavata nella pietra conduce alla fortezza; attraversato il ponte levatoio ed il possente portone in rovere massiccio, si accede al vestibolo lastricato di mattoni a spina pesce e si giunge alla torre di sentinella, posta a sorvegliare l’ingresso del forte. Proseguendo l’emozionante percorso in salita, si arriva dunque alla torre del carcere e a quella Angioina, per poi oltrepassare la chiesa e la torretta di avvistamento. Dall’esterno, invece, ad emergere è il profilo dell’imponente recinto fortificato realizzato in ciottoli e frammenti laterizi che si eleva sulla viva roccia, in bilico sullo strapiombo, dal quale svettano i torrioni e le torrette semicircolari ed il cui apice è in quella meravigliosa, solitaria ed isolata torretta quadrata: la vera e propria torre di guardia, costruita in muratura di pietra sbozzata e mattoni, ultimo atto dell’umano artificio sospeso elegante e caparbio tra cielo e terra, con la sua preziosa merlatura.
Diverse sono le leggende, a metà tra verità storica e racconto favolistico, che ruotano attorno a questo castello. Tra le più radicate quella del barone de Corvis, vissuto a metà Seicento, ribattezzato “Corvo de Corvis” per la sua malsana ossessione verso un corvo nero, venerato come una divinità.
Allo stesso sarebbe affiancata la storia dello “Ius Primae Noctis”, la legge al “diritto della prima notte” che egli volle ripristinare e che portò gli abitanti ad ordire una congiura contro il signore. La mano insanguinata del de Corvis, ferito ed in fin di vita, impressa sulla parete, vi sarebbe riaffiorata a non finire, nonostante le numerose ridipinture, fino al 1940, anno del crollo di quella parte di edificio.
Ma al di là dello spessore architettonico, del mistero che vi aleggia, c’è un sentimento tipico del movimento romantico che rende il fascino di questo sito intramontabile.
Sulla cima di questo castello, di questo nostro Abruzzo maestoso e selvaggio, fatto di torri desolate ed abbazie dimenticate, di monti corollati di eremi, di borghi sublimi e di strade che si snodano tra boschi impervi, uliveti e querce, al cospetto della “Grande Madre”, la Majella, in amorosa quiete dinanzi a noi, ci si sente come il “Viandante sul mare di nebbia” del celebre dipinto di C. D. Friedrich (1818), trasportati dal medesimo senso di solitudine eroica e di assorta contemplazione dell’infinito, con lo sguardo perso su uno sterminato panorama naturale, sublime e violento.
Non a caso, se c’è un passo letterario che attribuirei a questa Rocca, è della penna di William Blake, precursore del romanticismo inglese:
“Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono”.
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