Non è solo una questione di nomi e luoghi, o di fakes politicies come alcuni analisti stanno in queste ore battezzando il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d'Israele. La scelta della Casa Bianca stavolta non appare un'iperbole ma una precisa mossa nella scacchiera mediorientale, che fisiologicamente sta provocando reazioni (scomposte o meno). E c'era davvero da aspettarselo.
In primis Trump ha mantenuto una promessa elettorale. Nel 2016 lo aveva detto dinanzi a ebrei ed evangelici ferventemente israeliani: e oggi si passa all'azione. Certo, il processo potrebbe essere niente affatto immediato, ci potrebbe essere un semestre-cuscinetto per mantenere l'ambasciata a Tel Aviv. Ma è il dato politico che conta.
Dalla fondazione di Israele è la prima volta che parole simili arrivano in quel fazzoletto di terra martoriato da anni di bombe e sangue, vendette e veti.
Una presa di posizione netta produce, evidentemente, scontenti come Mahmoud Abbas, il presidente dell'Autorità palestinese. I leaders arabi hanno già annunciato una nuova ondata di violenza in tutta la regione. Come se la pantomima dei metal detector messi e tolti mesi fa a Gerusalemme non fossero stati giustificati da folli armati che passeggiavano sulla spianata.
La mossa della Casa Bianca potrebbe riaccendere la guerra regionale, si chiedono alcuni columnis clintoniani? Ma perché, verrebbe da rispondere, quali sono stati gli strabilianti risultati di Hillary Segretario di Stato in Medio Oriente e alla voce Isis? Vogliamo parlare della gestione del post Saddam? E l'impasse in Libia siamo davvero certi che non abbia padrini a stelle e strisce? E l'ambiguità di Qatar, Oman e pseudo finanziatori del Daesh?
Ecco che in questa fase sarebbe utile togliere qualche velo di politicamente corretto e guardare i fatti. Secondo il re Salman d'Arabia è un passo pericoloso che provoca i sentimenti dei musulmani in tutto il mondo, ma in troppi dimenticano che Gerusalemme Ovest è la sede del governo di Israele, anche se i palestinesi vedono Gerusalemme Est come la capitale di un futuro stato palestinese.
Amos Yadlin, direttore esecutivo dell'Istituto di studi sulla sicurezza nazionale dell'Università di Tel Aviv, ha detto al New York Times che la decisione di Trump è un passo positivo e importante, in riferimento anche agli “sforzi palestinesi di minare i legami storici tra la nazione ebraica e la città di David".
Tra l'altro lo spostamento non riguarderebbe l'area controversa della Città Vecchia, conosciuta come il Monte del Tempio. Gerusalemme resta ovviamente un problema molto caldo ma come osservato sul Fatto Quotidiano da Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano, è una mossa azzardata, ma tutt’altro che casuale, perché Trump sa che così non perderà l’appoggio di alleati in Medio Oriente come Riyad, più interessata a combattere l’Iran che a difendere Gerusalemme, e nel frattempo rinsalda i rapporti con Israele.
Secondo il New York Times in questo modo Trump ribalta sette decenni di politica estera americana e potrebbe potenzialmente distruggere gli sforzi fatti per mediare tra Israele e i palestinesi. Dimentica però di aggiungere che quegli sforzi sono già stati vanificati dal fallimento del tentativo di Bill Clinton, uscito di scena per una notte di sesso, e da chi guadagna miliardi ormai da anni dalla continuazione dell'intifada. Meno ipocrisia forse servirebbe, a quelle latitudini.
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