Di ciò che cerchiamo nell'altro e che, in silenzio, ci sfugge



di Marina Ciferni
Categoria: Pixel
30/05/2025 alle ore 10:50



C'è una domanda che attraversa silenziosamente molti rapporti: “Mi vedi davvero?”
Non si pronuncia ad alta voce, ma è lì, sottintesa, ogni volta che qualcuno aspetta una risposta, un gesto, uno sguardo che confermi di esistere per l’altro.

Questo bisogno – di sentirsi riconosciuti, confermati, scelti – non è un capriccio moderno. Lo psicologo Heinz Kohut¹ parlava del rispecchiamento come bisogno primario: senza uno sguardo che ci rimanda valore, facciamo fatica a percepire un senso stabile di identità. Solo che oggi quel bisogno ha trovato strade nuove, spesso più rapide e meno profonde.

Essere visti è diventato più importante che essere compresi. Appariamo, raccontiamo, ci mostriamo, e misuriamo il nostro valore in base alla reazione dell’altro. Non importa quanto sia sincera, l’importante è che ci sia. Ma l’apprezzamento istantaneo ha un difetto: non scalda, non resta. E quando ci manca, ci sentiamo improvvisamente vuoti.

Nelle relazioni affettive, tutto questo pesa. Le storie diventano brevi, fragili, consumate dal bisogno continuo di conferme. E appena l’altro non ci “nutre” più come vorremmo, ci sembra che non valga la pena restare. È una fame emotiva difficile da saziare, perché chiede all’altro qualcosa che, in fondo, dovrebbe venire da dentro.

Si parla sempre più spesso – e talvolta con troppa leggerezza – di narcisismo. Ogni comportamento autoreferenziale, ogni richiesta di attenzione, viene etichettata come patologica. Ma spesso ciò che chiamiamo narcisismo nasconde un’esigenza più profonda: la ricerca di sé attraverso l’altro.
Non è sempre egoismo, ma desiderio di riconoscersi in uno sguardo che ci restituisca un’immagine intera, coerente. In questo senso, molti rapporti affettivi diventano specchi: non tanto per conoscere l’altro, ma per sentirci esistere. E se quello specchio si rompe – se non ci riflette come vorremmo – non sappiamo più chi siamo.

Erich Fromm² scriveva che “l’amore non è principalmente un rapporto con una persona specifica: è un’attitudine, un orientamento del carattere che determina il tipo di rapporto che una persona ha con il mondo.”
In altre parole, non si ama per colmare un vuoto, ma per condividere qualcosa che si è.
Ma se ci relazioniamo partendo dal bisogno di essere confermati, e non dalla volontà di conoscere l’altro, l’amore diventa una richiesta, non un dono.

E così il romanticismo perde il suo senso profondo. Le citazioni d’amore che girano ovunque – “meriti qualcuno che ti guardi come se fossi un miracolo”, “se ti ama si vede” – raccontano un amore idealizzato, infantile, dove l’altro esiste solo per farci sentire speciali. Ma la psicologia ci dice altro: che l’amore vero comincia quando si smette di chiedere all’altro di salvarci.

Viviamo in un tempo in cui siamo chiamati a rinegoziare tutto: cosa vuol dire amare, cosa vuol dire restare, cosa vuol dire bastarsi.
E forse la domanda più urgente non è più: “Chi amerò?”
Ma: “Sono capace di amare anche quando nessuno mi guarda?”

Eppure, a volte, proprio nelle relazioni mai vissute fino in fondo, in quelle che restano sospese, non consumate, non definite, si conserva qualcosa di raro. Una promessa non mantenuta, ma mai delusa. Una possibilità che non ha avuto modo di fallire.
Forse, in un tempo in cui tutto si brucia in fretta, è lì che si nasconde una forma diversa di pienezza: nel non aver detto tutto, nel non aver avuto tutto.
Forse le relazioni sospese – quelle che non sono diventate né ferita né dipendenza – sono le uniche che ci permettono ancora di sognare.


 

 

 

N. 

  1. Heinz Kohut, La restaurazione del Sé, Bollati Boringhieri, 1983.

  2. Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori, 1993.