Non è semplice ripercorrere gli Anni di piombo. E non è altrettanto facile ascoltare senza dare giudizi e spiegare come "la conoscenza possa spezzare l'odio". Anche se è sembrato tutto più naturale nell'ascoltare le parole e le testimonianze che questa mattina hanno risuonato presso l'Auditorium Paganini di Parma, dove si è tenuta la Terza edizione di "Vivere e non sopravvivere - Giustizia Riparativa: la storia, il linguaggio, la parola, l'ascolto". L'evento, organizzato da Max Ravanetti, Filctem CGIL Parma, e moderato dal giornalista e saggista Gad Lerner, ha visto la partecipazione di Agnese Moro, Fiammetta Borsellino, Giorgio Bazzega, Manlio Milani, ma anche gli interventi di Franco Bonisoli e Adriana Faranda, ex brigatisti e militanti delle Brigate Rosse.
È ai tanti studenti presenti in sala che il presidente del Consiglio Comunale Alessandro Tassi-Carboni ha indirizzato questo progetto, perché "i complessi e delicati percorsi personali dei singoli protagonisti assumono una valenza collettiva molto importante soprattutto per le nuove generazioni". Oltre al presidente, ad aprire l'appuntamento è stato il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, che ha sottolineato come, in un'epoca in cui la discussione è sempre più polarizzata, esempi di comprensione della complessità siano necessari per tornare a vivere e a migliorare la società. È intervenuta anche la segretaria della CGIL Parma, Lisa Gattini, spiegando come "parlare e discutere siano importanti perché rompono le maschere che le parole stesse costruiscono".
Ravanetti ha poi proseguito esponendo il nucleo centrale della conferenza: l'importanza della parola, del linguaggio e dell'ascolto per affrontare i conflitti senza violenza. A seguire, Gad Lerner, con una metafora relativa alla storia dell'Auditorium Paganini, ex zuccherificio diroccato poi ristrutturato dal celebre Renzo Piano, ha introdotto il tema di "come si cura la sofferenza" e di qual è "la reazione giusta per tornare alla vita", ovvero la "giustizia riparativa", un percorso diverso e molto faticoso, che non promette punizioni o inasprimenti della pena.
Successivamente hanno preso la parola i singoli ospiti. A dare il via alle testimonianze è stata Agnese Moro, figlia dell'onorevole Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio del 1978, che ha spiegato, senza ipocrisie, come i brigatisti per lei abbiano rappresentato dei "mostri" che le avevano procurato un dolore "disgustoso", in quanto generatore di rabbia e rancore. Ha aggiunto che la giustizia penale è importante per informare le persone di cosa non è accettabile, ma non aiuta ad andare avanti perché "il problema resta". Nessun giudice vuole vedere i sentimenti, che automaticamente diventano qualcosa di solido che fanno vivere in una "dittatura del passato". Se ha incontrato i brigatisti è stato perché voleva tornare a vivere. E solo dopo trentuno anni, grazie a un percorso di giustizia riparativa, è riuscita a fare la vera domanda a quei "mostri", "come hai potuto?", e a capire che "l'umanità di nessun essere umano va perduta".
Alle parole della Moro seguono quelle dell'ex brigatista Adriana Faranda che ammette come "le domande di Agnese erano le stesse domande che ci facevamo noi" e come "avevo il bisogno di farmi quelle domande". Alla necessità delle vittime di capire e di superare il dolore si affianca, infatti, il bisogno dei carnefici stessi di darsi delle risposte sul proprio operato e di compiere un percorso di perdono verso sé stessi. Dalle sue parole è emerso il profilo di una donna che ha interiorizzato il rifiuto, il pregiudizio, l'indifferenza, e che ha compreso come da giovane avesse perso completamente il senso della giustizia, a causa di un retaggio culturale che l'aveva portata a vedere la violenza come uno strumento possibile.
Questi sono stati due degli interventi di questa mattina (per rivedere l'evento: https://www.facebook.com/CGILParma/videos/414361680176849/), ma non sono mancati anche gli interventi degli altri ospiti. Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino, ha raccontato come, nonostante sia stata derisa in carcere dai fratelli Graviano, negandole così la possibilità di condividere il suo dolore con chi l'ha generato, ha capito l'importanza che ha "guardare il carnefice come a un uomo". Manlio Milani, marito di una delle otto vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia, definendosi "vittima-responsabile", ha spiegato l'importanza di vedere il senso storico degli eventi. Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo dell'antiterrorismo Sergio Bazzega assassinato dal brigatista Walter Alasia, ha spiegato come, "buttando la propria vita sul piatto", ha superato quella che definisce "l'ignoranza di credere di avere il monopolio della sofferenza". E Franco Bonisoli, ex BR, ha confessato come, dopo essersi "disarmato dalle paure" ed essere stato ascoltato in un modo a cui non era abituato, si è preso carico di un senso di responsabilità verso il presente, lasciandosi alle spalle lo "specchio".
Da ciascuna di queste testimonianze è emerso come, nonostante vengano raccontate storie diverse, vi siano due interiorità, quella delle vittime e quella dei carnefici, che, tramite il complesso percorso della giustizia riparativa, si intrecciano in quello che Giorgio Bazzega vede come un aspetto comune all'animo del padre e che Agnese Moro chiama "amicizia sincera nonostante il male". E si fondono in qualcosa di più complesso e profondo rispetto a quello che comunemente chiamiamo "perdono".
Non si è trattato di una conferenza, ma di una vera e propria confessione pubblica. Sei persone hanno avuto il coraggio di spogliarsi e disarmarsi davanti a circa settecento sconosciuti. Si è assistito a una riflessione molto più ampia rispetto a un semplice dibattito sulla giustizia riparativa. Si è trattato di una lezione di vita concreta, in cui, tramite il racconto dei propri errori, delle proprie sofferenze, delle proprie storie, Moro, Borsellino, Bazzega, Milani, Faranda e Bonisoli hanno buttato giù le maschere del pregiudizio e del rancore mettendo tutti davanti ai limiti e alle ignoranze che troppo spesso caratterizzano le vite dell'uomo contemporaneo. Avere la possibilità di assistere a eventi così intensi e profondi nell'epoca della polarizzazione dei dibattiti, dell'algoritmo che domina l'agenda pubblica, del rifiuto del complesso e della filosofia, ovvero dell'amore per il ragionamento, e uscire dall'Auditorium turbati è solo l'ennesima dimostrazione che in questa società possiamo smettere di "sopravvivere" e dare inizio alla "vita".