«E' chiaro che la Turchia non dovrebbe diventare un membro dell’Unione Europea». Ci voleva la campagna elettorale tedesca per arrivare a questa dichiarazione con cui la Cancelliera Angela Merkel ha, di fatto, scritto la parola fine sulle strampalate teorie evoluzioniste di Erdogan quelle, per intenderci, che davano il Sultano sulla strada del modernizzatore Ataturk.
Peccato che i fatti abbiano smentito il Presidente turco, ma ancora una volta l'Ue (e i suoi leader) arrivano sulla notizia quando ormai è sulla bocca di tutti. Certificare oggi la non compatibilità di Erdogan con l'Ue significa oggettivizzare un'evidenza, ma sarebbe servito farlo prima e non dopo le migliaia di arresti di giornalisti, magistrati e politici.
Non oggi, con i mille sconfinamenti dello spazio aereo greco da parte degli F16 di Ankara in cerca di un cerino da infiammare, con le minacce a Cipro per via degli idrocarburi che fanno gola alla Turchia.
Sarebbe stato sufficiente scorrere qualche pagina del volume “Profondità strategica” scritto dall'allora docente universitario Ahmet Davutoğlu, poi ministro e premier, per rendersi conto quale disegno c'era dietro ammiccamenti e inviti.
Sul Corriere della Sera di ieri, Riccardo Franco Levi osserva che “la Turchia, Paese membro e avamposto orientale della Nato, è ormai a pieno titolo una grande potenza regionale che per dimensione, collocazione geografica, forza militare, proiezione internazionale, interessi economici e strategici, non può accettare di contenere le proprie aspirazioni e ambizioni nel quadro definito dagli interessi condivisi dai Paesi europei”.
E aggiunge: “Come tale, essa si colloca stabilmente, naturalmente, intenzionalmente al di fuori dell’Europa. Solo riconoscendo questo stato di grande potenza regionale e basando su questo un rapporto tra pari l’Europa può e deve risolvere la questione turca, trascinata nell’ambiguità sin dal 1959, quando la Turchia fu uno dei primi Paesi che cercò una stretta collaborazione con l’allora giovanissima Comunità economica europea”.
Un ragionamento che non fa una grinza, ma che dovrebbe, gioco forza, deve essere accompagnato da un altro, altrettanto pregnante e significativo: Ankara minaccia reiteratamente due paesi membri dell'Ue (Grecia e Cipro) senza che i grandi giornali e le istituzioni se ne lamentino. Come se fosse routine. Una nave oceanografica turca, la Barbaras, è arrivata persino ad intralciare il lavoro di esplorazioni dei giacimenti di gas portato avanti da varie compagnie, tra cui la nostra Eni a largo di Cipro. La stessa isola di Afrodite è stata invasa sin dal 1974, ad oggi è ancora occupata da 50mila militari turchi che hanno provveduto a distruggere l'intero patrimonio religioso e artistico presente sull'isola da svariati anni.
Il cimitero di Tersia, di rito maronita, è stato raso al suolo dai carri armati. Non è quindi solo una crociata contro il cristianesimo, quella di Erdogan e dei suoi guappi in mimetica, ma contro tutto ciò che sia democratico e civile. In Turchia si arrestano i magistrati, si torturano i giornalisti, si fanno sparire gli antagonisti politici come si faceva un tempo in Urss.
Solo che anziché un malessere improvviso, come da indicazioni del vecchio Pcus, a pochi passi da quel gioiello e patrimonio dell'umanità che prende il nome di Santa Sofia, gli indesiderati sono messi al bando con l'ordine di morte che parte da un palazzo di mille stanze, degno di megalomani disperati che fino ad oggi hanno giocato con l'Europa e il Mediterraneo. Senza che nessuno se ne sia accorto.