Due sono i fatti nuovi che emergono dagli attacchi dell’Isis in Spagna: la consapevolezza (finalmente) da parte di media e politica che trattasi di cellula e non di lupi solitari, e l’origine maghrebina della propaganda islamista. Due passaggi fondamentali, nella valutazione di insieme, che andranno metabolizzati velocemente se si vorrà combattere una volta per tutte il fenomeno terroristico nel vecchio continente.
Troppe volte, nel recente passato, si è abusato della locuzione “lupi solitari”: con problemi mentali, disoccupati, non inseriti e quindi facili prede della radicalizzazione dell’Isis. Vero solo in minima parte. La strategia, complessa e subdola, dell’Isis contro le mete turistiche e simboliche (Sharm, Londra, Parigi, Bruxelles, Berlino, Barcellona) non può essere figlia dell’improvvisazione e di qualche fanatico che mette in tasca due bombe e va ad immolarsi sotto il grido “Allah Akbar”. Il disegno è chirurgico e va analizzato nel suo complesso, prima di poter essere in grado di tracciarne i futuri scenari, così come in passato è stato fatto con il terrorismo filo palestinese.
Lo aveva già dimostrato Salah Abdeslam, capace di recarsi in Grecia via Italia e fare ritorno a casa senza alcun problema: segno che poteva contare su appoggi e organizzazione capillare come la fornitura delle pastiglie del coraggio.
C’è poi l’impronta maghrebina che la cellula ha lasciato, ben visibile, nel terreno del doppio attacco iberico e che appare direttamente proporzionale al mondo jihadista in Spagna. I fratelli marocchini arrestati sono di Aghbala, ma residenti in Catalogna e da pochissimo erano rientrati dal Marocco. E poi c’è Ceuta, ad un tiro di schioppo da Gibilterra, altro corridoio naturale tra nord Africa ed Europa su cui chiedere più controlli non equivale a mostrare muscoli ideologici verso i flussi migratori, ma solo regole e sicurezza così come fanno in Australia e negli stessi Usa.
Dunque un fil rouge di folli rivendicazioni, che parte dal Maghreb e corre fino alla Spagna, a segnare idealmente quel mondo arabo che millenni fa guardava la penisola iberica.
Fino a ieri era stata la Tunisia ad aver “donato” molta forza lavoro all’Isis, con migliaia di giovani foreign fighters che, con la promessa di uno stipendio e di una vita diversa, avevano lasciato la propria terra e il proprio status di disoccupazione, per abbracciare la causa legata al terrore. I fatti spagnoli danno un’ulteriore indicazione, centrandola sul Marocco e su una altro pezzetto di mondo africano in cui la propaganda jihadista musulmana ha attecchito drammaticamente.
Una ragione in più perché Bruxelles, ma anche Roma, non tratti con superficialità l’intero versante nordafricano che ancora di più è strategico e determinante anche per i risvolti legati agli attacchi. Il costone orientale del Mediterraneo, ormai chiuso per via dell’imbuto ellenico, ha trasferito tratturi e dinamiche in quello occidentale: Libia, Tunisia, Marocco e chissà cosa altro domani.
Possibile che i grandi mezzi tecnologici (satelliti,droni, big data) non siano in grado di individuare i campi di addestramento dell’Isis, o il flusso di approvvigionamento di armi o semplicemente di incrociare i nomi di chi fa la spola tra luogo di nascita e bersagli terroristici?
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