“Macron mi ha chiesto cosa ci serve, gli sto mandando una lista”. Non potevano essere più chiare di così le parole del generale Khalifa Haftar al Corriere della Sera. L'uomo forte della Cirenaica, che può contare su un canale diretto con Mosca e Il Cairo, affida al quotidiano italiano una serie di messaggi, diretti più a Palazzo Chigi che alla comunità internazionale.
Spesso in politica estera il pragmatismo è una bussola, a cui poi ovviamente va affiancata una strategia di visione e altamente programmatica: due elementi che, è onesto intellettualmente ammetterlo, sono mancati all'Italia nella gestione del dossier Libia.
E allora spulciamola questa lista della spesa inviata da Tobruk all'Eliseo: corsi per le guardie di frontiera, armi, autoblindo, elicotteri e droni. Per un costo di circa 20 miliardi di dollari. Lecito chiedersi come mai questa ordinazione non sia stata evasa da Roma che, quanto a qualità di mezzi e tecnologia, in questo momento è fra le top del mondo. Forse è mancata la necessaria spinta politica e istituzionale? Forse a Roma sono distratti dalla legge elettorale e dalle beghe interne e quindi sottovalutano l'importanza assoluta di questo semestre che precede le elezioni in Libia? E ancora, se è vero come è vero che i nostri servizi hanno instaurato un canale di comunicazione costante e qualificato con Haftar, come mai lo stesso generale non è stato avvisato delle navi italiane?
Un approvvigionamento, quello chiesto da Haftar al Presidente francese, che deve essere accompagnato, come lo stesso generale tratteggia nell'intervista, da una presenza cospicua di uomini e mezzi sul fronte sud, quello decisivo nella gestione dell'emergenza migratoria che, è utile ribadirlo, nulla ha a che vedere con la guerra in Siria. Bensì coinvolge una serie di altri Paesi del centro Africa da cui è, da tempo, iniziata una stagione di migrazione di massa. Anche perché è nota a tutti la presenza del corridoio libico verso il Mediterraneo e quindi l'Italia.
Quando, circa tre mesi fa, si stava abbozzando il vertice italolibico di Agrigento che si è svolto lo scorso luglio, da più parti (imprese, associazionismo, gruppi di interesse, lobbies, forze armate) era partito lo stesso velato messaggio diretto alla Farnesina: sarebbe utile gettare le basi per una ripresa dell'attività italiana in loco e, dopo l'imprescindibile presenza diplomatica, ecco i due passaggi successivi, come un vettore di trasporto e un cordone di sicurezza dove un nuovo cantiere italiano è già operativo, ovvero a Tripoli.
Una richiesta che è stata supportata anche dalla possibilità che un vettore come Libyan Wings potesse assicurare voli diretti da Fiumicino e Malpensa per la Libia, ma con il deterrente rappresentato dal blocco dello spazio aereo che l'Italia decise nel 2011. Ma oggi, sei anni dopo quelle bombe, il provvedimento deciso all'epoca meriterebbe di essere rivisto.
E allora la lista della spesa sottoposta da Haftar a Macron è la spia di ciò che andava fatto già due anni fa in Libia, ma si è scelto di fidarsi dei due commissari dell'Onu, lo spagnolo Leon e il tedesco Kobler che, se fossero stati due Ceo di una multinazionale, visti i risultati ottenuti, sarebbero stati licenziati in tronco. E non promossi ad altri incarichi.
E Roma? Sarebbe deleterio perdersi dietro gli errori altrui, per quanto può contare su un mattoncino di buona qualità messo dal ministro Minniti nella partita con le ong che secondaria proprio non è. Servirebbe un uomo forte che, come qualche leader della Prima Repubblica, dava del “tu” ai potenti della terra, da Kissinger ad Arafat. Ma non serve cercarlo, semplicemente non c'è.
twitter@FDepalo