Su una rivista di cinema, con i volti del regista Almodovar e della sua musa Penelope, ho letto “la vita è dolor y gloria”. Ed è proprio questa la grandezza dell’ultima fatica di Pedro, così attesa dai cinefili e che certo non delude ma anzi supera le aspettative: perché si distacca da un certo cliché di situazioni e di personaggi cui eravamo abituati.
Il film è infatti in larga parte autobiografico, fatta salva qualche esperienza estrema del protagonista, che è solo fiction (l’assunzione di eroina, ad esempio; le grotte degli anni da bambino; alcuni dialoghi con la madre anziana). In una bella intervista, l’autore dice che stava da un po’ lavorando su una sceneggiatura, che però non riusciva a concludere con soddisfazione; e di averla abbandonata per questa, nella quale racconta fondamentalmente di se stesso, dei genitori, dell’infanzia, degli amori e delle esperienze del passato.
Salvador, interpretato da Antonio Banderas (in vero stato di grazia: forse la sua migliore e più sentita prova attoriale, sarà per l’autentica amicizia e antica frequentazione con Almodovar), è un regista in crisi esistenziale e artistica; vive a Madrid, in un appartamento che è un museo d’arte contemporanea. Dice, in una conversazione con una sua vecchia fiamma che non incontrava da anni, di avere investito in quella casa tutti i suoi soldi. Noterete quanta bellezza nei quadri, nell’accostamento dei colori, sempre solari e caldi, nelle lampade d’autore e nei divani (di velluto, tessuto amato da Pedro).
Nulla è lasciato al caso, tra quelle mura; e per questo ancora più netto è il contrasto con le immagini, in flashback, di Salvador da bambino, in una Spagna rurale, circondato soprattutto da donne: la mamma (Penelope Cruz, di recente vi ho parlato di lei in Tutti lo sanno di Farhadi, qui la mia recensione https://cinedecimamusa.blog/2018/11/24/tutti-lo-sanno/) e le vicine. All’epoca vivevano al paese (un luogo indistinto ma lontano dalla metropoli); poi in una casa grotta, (forse collocabile in Andalusia). I ricordi, fatti di prime forti emozioni e di moltissime cose da imparare, si intrecciano al presente. I piani temporali si sovrappongono in modo non ordinato, come accade con la memoria.
Ma ricostruendo i pezzi, come con un puzzle, il risultato è quello di comprendere bene il personaggio principale, Salvador-Pedro. È forte l’importanza dell’amicizia e dei sentimenti che non si spengono con il trascorrere degli anni, ma rimangono vivi e profondi nonostante le rotture e gli allontanamenti. È come se Almodovar, nel fare una sorta di bilancio della propria vita, ne traesse un risultato algebricamente molto positivo, a livello affettivo.
In breve: si sentisse amato. Soprattutto dalla madre, che nel film troviamo in due versioni: da giovane è Penelope (sempre attenta a Salvador, soprattutto alla sua crescita mentale e culturale, nonostante la povertà); da grande è Julieta Serrano (anche lei una vera fissazione di Pedro: è presente in Legami e in Donne sull’orlo di una crisi di nervi). Si capisce, anche se solo da passaggi e battute lievi ed eleganti, una critica alla mentalità arretrata della Spagna degli anni sessanta e settanta (soprattutto per chi era fuori dai canoni conformisti) quando era Cattolica e Apostolica, come insegna il piccolo Salvador al suo scolaro adulto, che sta imparando da lui a leggere e scrivere.
C’è anche un pizzico di Italia nel film: nella canzone Come sinfonia cantata da Mina (e legata alle scene del passato); e il dvd di Mamma Roma di Pasolini nel salotto di Salvador. E c’è, a permeare tutto, una grande passione e riconoscenza per il cinema: che come dice il protagonista a un certo punto gli ha salvato la vita.
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