Secondo i dati raccolti dalla relazione annuale di valutazione sulla giustizia della Commissione europea, la giustizia italiana è sempre più inefficiente e lenta. I tempi necessari per risolvere contenziosi civili e commerciali aumentano.
Nel 2016 ci volevano 514 giorni per arrivare ad una sentenza di primo grado, nel 2017 ce ne sono voluti, in media, 548. Un mese in più. E’ il dato più alto di tutta Europa. La causa di tutto questo? Ne abbiamo già parlato: carenza di uomini, mezzi, investimenti. A cui si unisce la mancata attuazione di riforme serie e concrete che abbiano la capacità di snellire la farraginosa macchina giudiziaria italiana. Ma se i nostri Tribunali sono oramai al collasso, parte del problema risiede anche in alcuni processi.
Che già sulla base di una attenta valutazione preliminare dei documenti in possesso di giudici e pubblici ministeri, non dovrebbero addirittura iniziare. O, quantomeno, chiudersi in tempi rapidi e con sentenze di contenuto opposto a quello che, in effetti, contengono. Un esempio dell'esasperato ed intransigente rigore con cui le leggi vengono applicate lo troviamo, in àmbito penale, ogniqualvolta il figlio della coppia va a vivere dalla madre mentre il padre deve versare, a entrambi, un assegno di mantenimento.
L’importo è stato fissato dal giudice all’atto della separazione, poi confermato con la sentenza di divorzio. Il Tribunale non ha tenuto conto del fatto che l’ex marito è sostanzialmente disoccupato: a parte alcuni lavoretti saltuari, spesso in nero, non ha entrate fisse. Perciò, non volendo venir meno all'obbligo nei confronti del figlio, anziché versare l'importo determinato dal Tribunale, di cui non ha disponibilità, cerca di adempiere come può ai suoi doveri. Invece di versare gli alimenti al figlio, fa la spesa: si reca al supermercato, riempie un carrello di generi alimentari e, una volta ogni 15 giorni, li consegna alla madre per il mantenimento di entrambi.
Talvolta provvede ad acquistare qualche capo di abbigliamento di cui il bambino ha bisogno. Ma la ex moglie lo querela. Vuole i soldi. Punto. La vicenda arriva sino in Cassazione, che dà ragione alla donna, sostenendo che può essere condannato per violazione degli obblighi familiari il padre che, pur provvedendo entro i limiti delle proprie capacità economiche a somministrare generi alimentari e di prima necessità a titolo di mantenimento, ometta di versare puntualmente l'assegno cui è tenuto.
Non basta, insomma, lo stato di difficoltà finanziaria per escludere la configurabilità del reato; il padre deve dimostrare l’assoluta incapacità ad adempiere. Cerchiamo di distinguere tra chi non vuole e chi non può fare fronte ad un obbligo. Altrimenti rischiamo di diventare complici morali di molti gesti estremi.
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