Altro che classe operaia, è nel giornalismo che trionfa il precariato


Le inchieste di Impaginato: una professione così delicata e decisiva per la comunità ma senza tutele sindacali


di Leonardo De Santis
Categoria: ABRUZZO
23/05/2019 alle ore 18:20



Dall'inglese freelance worker, il freelance è entrato nella lingua comune italiana per indicare una persona che lavora come libero professionista e nel mondo del giornalismo sta ad indicare un soggetto che non dipende da un quotidiano, ma conoscere e osservare il mondo con i propri occhi e ne scrive in maniera indipendente, libera e dunque in totale assenza di vincoli.

Free-lance, vale a dire "Lancia-indipendente" o "Lancia-libera", era infatti un soldato professionista non legato a un comandante specifico, ma in grado di mettersi liberamente agli ordini di chi voleva. Nel mondo anglosassone, questa figura è estremamente rispettata nel giornalismo al punto da avere degli spazi dedicati e dei luoghi autonomi all’interno delle redazioni: si tratta di fotografi, giornalisti, critici contemporanei, che realizzano reportage spesso importanti e che vengono pagati molte centinaia di euro perché, comunque, i giornali che li comprano, oltre ad acquistare articoli di qualità, non versano contributi e tasse.

In breve, non hanno i costi che hanno con i propri dipendenti ed è per questo motivo che un lavoro di un esterno viene pagato di più. In Italia invece, come spesso accade, la situazione è molto diversa: a partire dal nome, i freelance vengono chiamati più facilmente “collaboratori“, anche se questa parola sarebbe più appropriata per le persone che quando possono e vogliono scrivono anche per le agenzie di stampa. I “collaboratori” quindi sono giornalisti veri e propri ma che molto più semplicemente non possiedono un contratto ma vivono dei pezzi che scrivono.

Negli ultimi anni sono diventati migliaia, e presto saranno la maggioranza dei giornalisti italiani, anche se i lettori – e purtroppo i politici che se ne dovrebbero occupare –  di questo sanno molto poco. Nel periodo degli anni ‘90 il freelance in Italia era ancora possibile, perché gli articoli erano pagati dignitosamente e la frequenza di scrittura era costante.

Con la crisi dei giornali di carta e il passaggio al web, i compensi sono stati drasticamente ridimensionati fino ad essere negli ultimi anni tagliati in maniera sconsiderata, arrivando a cifre con le quali non è possibile neanche sopravvivere. Spiccioli, sui quali comunque bisogna togliere le spese, e ciò che rimane per i freelance è quasi nulla.

Questa situazione è stata la conseguenza di varie cause: da un parte la crisi delle vendite dei giornali, le carenti entrate pubblicitarie, il costante flusso di notizie online (spesso false, come le fake news), date in abbondanza e che hanno abituato il lettore italiano ad esigere notizie che si rivelano alle volte non imparziali, povere di contenuto ma sempre continue. Dall’altra parte invece, un mercato del lavoro selvaggio che ha concesso praticamente qualunque forma di (non) contratto.

L’adesione ad un Ordine, in questo senso, non ha in alcun modo frenato questo fenomeno che anzi è stato spesso oscurato; si credeva che la presenza di un Ordine fosse sufficiente a garantire e tutelare chi ne faceva parte, niente di più falso. Per ultimo poi, ma chiaramente non per importanza, l’incredibile disinteresse dei sindacati verso il mondo dei freelance: un’indifferenza e una noncuranza gravissima. Dunque, ad oggi, ridimensionare un compenso ad un collaboratore è semplicissimo, basta una e-mail e nessuno se ne accorge.

Eppure i dati ci sono e basterebbe andare a visionare le retribuzioni annuali medie degli iscritti alla Gestione separata dell’Inpgi 2, l’ente previdenziale dei lavoratori autonomi dei giornali, per comprendere facilmente in che situazione di difficoltà vivono migliaia di giornalisti: poche migliaia di euro l’anno, nessuna tutela in caso di malattia, niente ferie, nessuna pensione. Un caso eclatante poi è quello del sindacato dei giornalisti, la Fnsi, che tutela esclusivamente i lavoratori dipendenti, ed è arrivato persino ad auspicare (come nel caso della crisi de il Sole 24 ore) il taglio di tutte le collaborazioni per salvare gli interni.

Sempre la Fnsi, inoltre, ha firmato il triste e vergognoso accordo che ha sancito “la fine dei freelance”, invece che la loro tutela, nel giugno del 2014 con la Fieg (gli editori), l’allora governo (sottosegretario all’Editoria Luca Lotti) e l’Inpgi, ma senza la firma dell’Ordine dei giornalisti, un fatto davvero inverosimile se si pensa che la composizione del totale dei 21.923 giornalisti iscritti alla Fnsi nel 2013 era di 15.947 dipendenti, contro 5.976 freelance.

Decisamente poco rispetto ai 112.046 iscritti totali all’Ordine dei Giornalisti nello stesso anno (ma sempre con una rappresentanza dei freelance minoritaria). Tale accordo sul giusto ed “equo” compenso, per fare un esempio, stabiliva tariffe minime di 20,8 euro lordi per un pezzo dei quotidiani, di 6,25 euro per le agenzie. In quella occasione il presidente dell’Ordine aveva riportato un esempio inequivocabile: una persona che scrivesse 432 articoli in un anno (praticamente più di uno al giorno) guadagnerebbe 6.300 euro l’anno lordi. In questo quadro precario, ai freelance viene richiesto tuttavia il massimo della disponibilità, della rapidità e della ricchezza di notizie, esattamente come si chiede a un interno che guadagna molto di più. A volte sono gli stessi giornali a non voler denunciare questa situazione di comodo per loro, che dunque diventa una delle forme di ingiustizia che viene meno indagata e combattuta.

Certamente con le mutazioni in atto nel mondo dell’editoria e del lavoro è necessario anche un cambiamento “genetico” del giornalista affinché si possano raggiungere con empatia ed etica i propri lettori, attraverso un’informazione libera e che si traduca davvero in un servizio per la collettività, magari però con delle tutele maggiori e soprattutto chiare.

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