Con un debito oltre il 130% del Pil, ogni piccola turbolenza politica rappresenta un terremoto, nel quale si rischia seriamente di morire soffocati dagli interessi da pagare, poiché fino ad ora da parte del governo la strategia è stata sempre e soltanto una sola, ovvero nascondere la testa sotto la sabbia.
L’Italia è l’unico paese al mondo in cui esiste uno spauracchio chiamato spread, o se preferite, in cui il differenziale tra il tasso d’interesse tra i titoli di stato nazionali e quelli tedeschi assurge a variabile fondamentale nel determinare i destini politici del Paese. Questo giusto per dare la dimensione di quanto il nostro gigantesco debito pubblico (attualmente pari a 2.358,8 miliardi di euro, il 132,2% del nostro prodotto interno lordo) sia il cuore dei problemi dell’Italia, il fardello che inibisce ogni possibilità di cambiamento, la questione numero uno che si dovrebbe affrontare, se si vivesse in un paese serio. Gli ultimi arrivati a farci i conti ora sono Lega e Cinque Stelle, proprio loro che per anni avevano raccontato che non sarebbe stato un problema farlo crescere ancora, che il bello dei debiti pubblici è che non si estinguono mai, che per crescere tocca indebitarsi ancora più di quanto lo siamo adesso.
Non avevano fatto i conti con l’oste, nemmeno loro: con un debito oltre il 130% del Pil, ogni segno di nervosismo dei mercati si tramuta in una crescita dei tassi d’interesse. E ogni crescita dei tassi aumenta il costo di rifinanziamento del nostro debito pubblico, la nostra mole di interessi da pagare, attualmente pari a 68,9 miliardi di euro, il 4% del Pil, più o meno quanto l’Italia spende in istruzione, come ha recentemente ricordato Pierre Moscovici. È come un nodo scorsoio che si stringe sempre di più, al collo della politica; tutto ciò mentre Salvini minaccia di sforare il 3%, Tria paventa un aumento dell’Iva e Giorgetti evoca la crisi di governo.
Lo spread sale e gli effetti di annunci che lasciano il tempo che trovano, e che a volte servono solo per riempire invano le pagine dei giornali, si ritrovano inesorabili nel conto da pagare ai mercati e alla loro sfiducia nei confronti dell’Italia. Dando due cifre, secondo l’osservatorio sui conti pubblici italiani guidato da Carlo Cottarelli, i soli primi sei mesi di governo gialloverde, dalla querelle Savona al braccio di ferro con la commissione europea per la legge di bilancio, hanno portato in dote per il solo 2019 1,5 miliardi di spesa aggiuntiva per interessi sul debito.
Per il quadriennio 2018-21 la maggior spesa cumulata è di oltre 4 miliardi. Tanto per chiarezza: sono soldi che si dovranno pagare, o con tasse in più, o con servizi in meno. Qui non si tratta di inneggiare allo spread o meno: è semplicemente l’attestazione che ciò che ci rende sempre meno padroni a casa nostra è il debito pubblico che si ha pesantemente sulle spalle.
Si è giunti al grave punto in cui basta persino un outlook negativo di un’agenzia di rating, una previsione nefasta dei nostri indici di crescita, o la dichiarazione di un politico estero qualunque che esprima dubbi sulla nostra capacità di rifinanziarci, per farci ballare come su una nave in tempesta. Nello scacchiere internazionale, un paese così esposto alle turbolenze non può contare molto così come non può permettersi a lungo di battere i pugni sul tavolo in Europa. Sostanzialmente per aumentare la propria competitività sui mercati internazionali si hanno a disposizione margini di manovra alquanto ridotti.
O si trova il modo di affrontare questo mostro che abbiamo in casa nostra, che minaccerà sempre di più la nostra sovranità, oppure ci si ritroverà ben presto (e già si è a buon punto) a usare il nostro default come minaccia per la stabilità economica altrui. Abbiamo due strade davanti a noi, e forse è davvero l’ultimo brandello di sovranità che ci rimane: o si decide con veemenza di prendere il toro per le corna e di ridurre drasticamente il nostro debito pubblico, in qualunque modo. Oppure si deciderà di puntarlo alla tempia del resto del mondo.
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