Martin Luther King sosteneva che per farsi dei nemici non è necessario dichiarare guerra, ma è sufficiente dire quello che si pensa. Devo riconoscere che il pensiero del più famoso pastore protestante, politico ed attivista statunitense, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani e sostenitore della “non-violenza” coglie nel segno.
Almeno nella stragrande maggioranza dei casi. Sono poche, infatti, quelle persone che accettano costruttivamente un'opinione contraria e, se lo fanno, spesso non si tratta di un genuino momento di confronto tra prospettive differenti, quanto piuttosto di una accondiscendenza di facciata, malcelata dietro un sorriso di circostanza laconico e sarcastico. Tuttavia il diritto di critica, nel nostro sistema giuridico, rappresenta un principio fondamentale sacrosanto.
Come il diritto di cronaca, esso è disciplinato dall'art 21della Costituzione Italiana il quale, nel primo comma, recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ciò implica come ogni avvenimento può essere giudicato da qualsiasi cittadino, il quale è legittimato a farlo dalla Costituzione.
Negli ultimi anni, però, soprattutto con la complicità ed il “favoreggiamento elettronico” dei social network, troppi individui o gruppi di individui si lasciano andare ad elucubrazioni e contumelie gratuite che nulla hanno a che vedere con il diritto di critica, ma che rappresentano uno sfogo frustrato e squallido diretto verso un determinato soggetto.
Questi individui non criticano, ma – piuttosto – odiano. Il neologismo “haters” è utilizzato per identificare quei soggetti che, sul web o attraverso i social, manifestano atteggiamenti di odio, disprezzo e critiche che dovente sconfinano in vere e proprie offese (ad esempio di genere o di classe) e/o minacce rivolte ad altri utenti o nei confronti di personaggi più o meno noti.
Questi “leoni da tastiera”, che quotidianamente riversano rabbia e odio verso gli altri su Internet, si trincerano dietro lo schermo del PC o dello smartphone, utilizzati come scudo con la convinzione che quanto accade o viene commesso nell'ambiente virtuale non abbia conseguenze o ricadute nella vita quotidiana “reale”. Ed invece commettono altrettanti reati, smascherati da indagini di polizia postale sempre più accurate. Si va dalla diffamazione aggravata alle minacce.
Dalla molestia agli atti persecutori (che, in rete, prendono il nome di “cyberstalking”). Gli “haters”, con i loro atteggiamenti, rischiano anche di incorrere nei cosiddetti. crimini d'odio (dall'inglese “hate crimes”), i quali ricomprendono gli atti di rilevanza penale che hanno alla base un movente discriminatorio, in relazione all'appartenenza (vera o presunta) a un gruppo sociale, identificato in base a etnia, religione, orientamento sessuale, dell'identità di genere o di particolari condizioni fisiche o psichiche.
Bisogna segnalare e colpire duramente questi atteggiamenti codardi e beceri, espressione di una mentalità pavida ed infima.
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