Né puttane, né madonne: solo donne


Dal delitto d'onore alla riscoperta delle relazioni d'amore


di Bruna Silvidii
Categoria: Psiconauta
22/03/2019 alle ore 15:26



Agli inizi di Marzo si  è scatenato un uragano mediatico, seguito poi da delusione ed amarezza, dinanzi alle sentenze che vedono ridotta la pena (dai 30 anni richiesti dal Pm, ai 24 decisi dai giudici, con un ulteriore sconto, a 16 anni, con il rito abbreviato), sia per Javier Napoleon Pareja Gamboa, operaio edile ecuadoriano di 52 anni, condannato in primo grado per l’omicidio volontario della moglie Angela Coello Reyes, per tutti Jenny, che per la sentenza, ancor più clamorosa, (pena ridotta dai 30 anni ai 16), nei confronti di Michele Castaldo, di 57 anni.

L’uomo avrebbe strangolato la povera Olga Mattei, donna con la quale aveva iniziato una relazione un mese prima, quando lei aveva cercato di lasciarlo. Successivamente, Castaldo ha tentato il suicidio in carcere.

Nel primo caso i giudici scrivono che lo stato d’animo intenso del Signor Gamboa “non è umanamente del tutto incomprensibile”, si intende dunque che è umanamente comprensibile, dato l’atteggiamento fedifrago e contraddittorio di lei. Un po’ come dire che in fondo se l’è cercata. Nel secondo caso, sempre secondo i magistrati, le difficili esperienze di vita di Castaldo l’avrebbero condotto, quel giorno, ad essere sopraffatto da una “soverchiante tempesta emotiva e passionale” che avrebbe intensificato la sua angoscia di venire abbandonato.

Nei cosiddetti “delitti passionali” e nei femminicidi, compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, ci sarà sempre una reazione viscerale e/o delle componenti emotive che non possono trasformarsi in attenuanti, non solo durante l’intero iter giudiziario, ma ancor di più nel nostro contesto culturale. I giudici confermano, attraverso i media che non c’e’ alcuna deviazione maschilista in atto, ma in realta', asserire che tali sentenze non abbiano a che vedere con il “delitto d’onore”, non è né realistico, né tantomeno coerente. Il rischio è infatti che qualcuno ricominci a giudicare l’agire di una donna, come istigatrice di comportamenti violenti, fino a giungere all’omicidio.

La domanda che sorge spontanea è: cosa conduce un uomo a colpire a morte, sua moglie o l’amante, la sorella, la compagna? Si continua a chiamarli “delitti passionali”, perché il movente sarebbe l’amore, quello che non tollera incertezze e cedimenti; quello che è unico ed esclusivo. Ma dov’è l’amore quando la vittima si configura soltanto come un oggetto di possesso e di gelosia, a cui si impedisce ogni forma di libertà e di individuazione? Il filosofo inglese John Stuart Mill, nel XIX secolo, parlò di “dispotismo domestico”, accolto dalla cultura dominante, centrata drasticamente sull’egemonia maschile.

Le donne, dalla natura “uterina”, le cosiddette “fattrici”, legittimate solo alla procreazione ed alla gestione del focolare domestico, erano costrette a subire ciò che gli uomini imponevano loro, sottomettendosi alla volontà del pater familias, e manifestando come qualità femminili per eccellenza, la fedeltà, la mansuetudine, la remissività e l’assoluta subordinazione ad un destino, scelto da altri. Le battaglie femministe, volte a demolire definitivamente la scissione estremista tra “donne per bene” e “donne di malaffare”, avrebbero dovuto aiutare le donne ad uscire dall’empasse della precedente cultura della sottomissione, ma in realtà questo desiderio di parità e di autoaffermazione della propria dignità, ha pericolosamente suscitato, negli uomini, l’angoscia di perdere il proprio potere, ereditato “dall’impero patriarcale”, legittimandoli, il più delle volte, a reazioni volgari, aggressive e talvolta violente, a causa della propria insicurezza e/o della scarsa fiducia in se stessi.

La violenza si configura, dunque, come un problema culturale che a volte può essere associato a problemi di tipo psicopatologico, caratterizzati da sintomatologie ansiose e depressive e/o da disturbi della personalità, i quali esprimono una totale assenza, negli individui violenti, di una formazione di tipo affettivo ed una assoluta incapacità di trasformare la propria sofferenza esistenziale, in qualcosa di comunicabile, attraverso le parole. Per aiutare un uomo violento è necessario, il più delle volte, svelare ciò che i suoi comportamenti sottendono; scopriremo che spesso alla base di essi si nascondono gravi mancanze d’amore.

A partire dalle carenze dell’amore genitoriale, durante l’infanzia, per giungere a possibili situazioni traumatiche, vissute nelle diverse fasi evolutive; nello specifico, come l’esperienza clinica mi ha insegnato nel corso degli anni, maltrattamenti, molestie e/o abusi sessuali. Il Centro di Salute Mentale, Servizio nel quale opero da molti anni, costituisce un osservatorio privilegiato dei molteplici e nuovi fenomeni psicosociali suddetti, connessi alla dissoluzione dei valori tradizionali ed alla affermazione sempre più radicata di una modalità di comunicazione, definibile ad “alta emotività espressa”, il più delle volte basata anche su messaggi verbali e non verbali e/o su comportamenti violenti che ho potuto riscontrare in diverse coppie.

In questo ambito, utilizzo un modo di procedere che mi consente di mettere in luce le dinamiche inconsce e relazionali che hanno condotto gli utenti alla consultazione e spesso emerge che i problemi della coppia sono identificabili come problematiche esistenziali e/o psicologiche irrisolte, di ciascun partner. Ne consegue la possibilità di osservare relazioni di coppia, basate su una pseudo complicità la quale, in realta', sottende dinamiche invischianti, fusionali e/o basate sulla co – dipendenza affettiva.

Il lavoro terapeutico consiste nel favorire la rielaborazione, all’interno della coppia, della percezione psicosociale, secondo la quale la relazione amorosa, implichi necessariamente la dipendenza reciproca dei partners, a discapito della propria, personale, possibilità di individuazione. Si tratta, in realtà, di una “dipendenza transitoria” e funzionale, poiché come scrive Hannah Arendt, in una lettera al marito, “per amare bisogna essere pronti a rinunciare a qualcosa”, riscoprendo nel contempo, all’interno della relazione d’amore, la possibilità di esplorare e di conoscere zone oscure della propria essenza.

Ritengo che gli uomini che uccidono “per amore”, dimentichino, non sappiano o neghino tutto questo e nel tentativo di preservare la propria virilità, impediscono all’altro, la possibilità di esistere.

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