Uno dei più significativi punti di partenza della scelta di Giovanni Legnini di accettare la candidatura alle regionali d'Abruzzo (mentre il centrodestra è impegnato nella corsa ai veti, ai controveti e alle struggenti cabine di regia romane) può essere individuato nell'appello siglato da 162 sindaci di comuni abruzzesi.
Un passaggio “territoriale” che va in netta controtendenza rispetto alla governance che, nell'ultimo lustro, ha scavato un solco profondo tra cives et imperium condito da fughe in avanti, sottovalutazioni di esigenze e istanze, per issare il vessillo del super io solo al comando (e allo sbando).
Il filo con i campanili si somma all'uomo che segna, sia da un punto di vista caratteriale che professionale, un'altra cesura oggettiva con il governatore del passato: poca propensione all'iper individualismo, doti di concertazione e di raccordo, profilo istituzionale puro, immagine di rifugio mentre fuori imperversa la burrasca.
Certo, a fare da contraltare ecco la zavorra piddina, impegnata in una lunga quanto farraginosa corsa alla nuova segreteria, con i nodi di sempre, con l'ombra della scissione che, fino ad oggi (chiedere a Art1, Leu e compagnia cantante), ha portato non solo sfiga, ma di più.
La gente, le imprese, i lavoratori, le categorie sono stufe di caminetti locali o nazionali, di alchimie figlie di un mondo che non c'è più: per questa ragione la loro prima reazione è stata il folle voto di protesta dello scorso 4 marzo, che ha gonfiato i numeri dei pentestellati fino a drogarli di un consenso tanto evidente quanto prodigo di obblighi che non sanno concretizzare per imbarazzanti limiti oggettivi.
Deputati che oggi, nei capannelli in Transatlantico, non vedono l'ora di cambiare aria e gruppo, e lo fanno sentire a noi giornalisti ad alta voce e senza mostrare timore per le succulente e incatenanti penali inventate da Casaleggio.
Nel mezzo i territori, le regioni e le mille contraddizioni di enti pachidermici che andrebbero riformati davvero, magari accorpandoli in macroregioni, perché non solo elevano al cubo la burocrazia italica che spaventa gli investitori, ma che producono conti in rosso fisso (come dimostrano numerose partecipate, vero Abruzzo?).
L'Abruzzo, si è detto, scritto, sussurrato nei circoli chiusi e urlato nelle piazze, necessita di una trasformazione: un po'come si fa nelle multinazionali, con riconversione industriale e cambio di partners. Ma per farlo non basta indicare col dito alla luna di un generico cambiamento perché lo chiede il popolo, bensì occorrono analisi, progettazione e job's plan (in questo preciso ordine).
E ovviamente anche nomi alti che guidino il processo, non figli di algoritmi.
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