La liberazione della città irachena di Mosul e quella ormai certa di Raqqa, in Siria, non segneranno la fine dello Stato islamico né della sua ideologia, anche se archivieranno la pretesa dell'Isis di definirsi un vero e proprio califfato. A scriverlo, in un editoriale sulla "Washington Post", è Ashton Carter, segretario della Difesa Usa dal 2015 al gennaio di quest'anno e direttore Belfer Center for Science and International Affairs della Harvard University. La sconfitta campale dello Stato islamico, scrive Carter, ridimensiona l'attrattiva esercita da quell'organizzazione "sugli estremisti violenti o su quelle anime perdute da social media che attaccano l'America e i nostri alleati". Si tratta di un passo fondamentale nell'ambito della lotta al terrorismo, riconosce l'ex segretario, secondo cui il merito della liberazione di Mosul va ai militari iracheni, ai peshmerga curdi ma anche "alla superba esecuzione, da parte delle forze Usa e della coalizione, della campagna tesa ad addestrare, equipaggiare e consolidare le forze di sicurezza irachene, intrapresa più di un anno fa". Carter difende come necessaria la strategia adottata dall'amministrazione dell'ex presidente Usa Barack Obama per contrastare lo Stato islamico in Iraq e Siria, una linea che a Washington è stata spesso contestata come eccessivamente attendista e tentennante. "Condurre la campagna a questo modo era strategicamente necessario per porre le condizioni di una sconfitta durevole dello Stato islamico", sostiene Carter. "L'alternativa sarebbe stata impiegare le forze di terra statunitensi sin dall'inizio, ma ciò avrebbe ceduto il vantaggio militare al nemico nel teatro urbano di un paese straniero, e potrebbe aver indotto alcuni di quanti appoggiano al campagna (o che quantomeno sono rimasti ad assistere) a unirsi al nemico". Infine, scrive Carter, un impiego terrestre diretto "avrebbe lasciato irrisolti i problemi della stabilizzazione post-conflitto e della governance", in cui gli Usa non si trovano ora direttamente coinvolti. Carter elogia anche il suo successore, il segretario alla Difesa Jim Mattis, e il capo dello stato maggiore congiunto Usa, Joseph Dunford, che "non soltanto hanno proseguito questa campagna, ma hanno esplorato modalità per accelerarla". Archiviati i festeggiamenti, però, gli Usa "devono prepararsi alla strada che hanno innanzi": la sconfitta dell'Isis a Mosul e Raqqa "è necessaria ma non sufficiente". L'Iraq, spiega l'ex segretario, resta un teatro preoccupante non tanto sul piano militare, quanto su quelli politico ed economico: "A meno che gli iracheni siano soddisfatti di quanto arriverà d'ora in poi, il paese subirà un nuovo scivolamento verso il caos e il radicalismo". Le forze di sicurezza irachene, inoltre, "avranno bisogno di una presenza militare statunitense sostenuta" per mantenere la coesione e garantire la sicurezza. Quanto alla Siria, "si tratta di uno scenario ancora più complesso": tra le decisioni più importanti che il presidente Usa, Donald Trump, si è trovato a dover assumere, c'è stato il rinnovo della fornitura di armi e addestramento ai curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf): "una decisione controversa, perché osteggiata dai turchi", scrive Carter, ma nondimeno "l'unica opzione possibile per liberare Raqqa", l'autoproclamata capitale dell'Isis. L'ex segretario rivendica di aver sempre sostenuto l'appoggio militare ai curdi delle Sdf, ma raccomanda di porre queste ultime di fronte alla loro responsabilità e ai loro impegni una volta liberata Raqqa, per non alienare l'Alleato turco. Carter, infine, si scaglia senza riserve contro la Russia, pure autrice di una efficace campagna militare contro lo Stato islamico in Siria. Mosca, accusa l'ex segretario, "non ha svolto alcun ruolo costruttivo nelle imminenti vittorie statunitensi. il presidente Vladimir Putin ha inviato le sue forze nella Siria occidentale col pretesto di combattere il terrorismo e agevolare una transizione politica dal regime omicida di Bashar al Assad, ma non ha fatto nulla di tutto questo". Secondo Carter, che così facendo esprime una posizione nettamente contraria alle più recenti iniziative del presidente Trump, "qualunque forma di cooperazione più vasta tra Russia e Stati Uniti, al di là della deconflittualizzazione, richiederebbe il rispetto da parte di Mosca di condizioni cui non ha mai ottemperato". La lotta al terrorismo, ammonisce Carter, dovrà proseguire altrove e per un lungo periodo a venire: in Afghanistan, anzitutto, dove secondo l'ex segretario è opportuno rafforzare la presenza militare statunitense. "Il mondo -conclude Carter - dovrebbe prendere nota che nessuno, al di fuori degli Stati Uniti, avrebbe potuto guidare una coalizione come questa (contro l'Isis, ndr) alla vittoria. Si tratta di una replica adeguata a chiunque sostenga che la nostra disorganizzazione sul piano internazionale e la partigianeria politica siano ragioni sufficienti a dubitare della permanenza degli Usa" al centro del quadro geopolitico globale.
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