Era estate, forse settembre, e faceva caldo.
Io ero single. Mi accadeva spesso e, devo dire, mio malgrado.
Mi trovavo in quel tempo di mezzo tra la fine della vacanza e la ripresa dello studio universitario. Senza molto da fare e nessuna voglia di ricominciare.
Il clima era di un caldo ancora intenso, anche se non più torrido, colorato già di malinconia.
Per riempire vuoto e malinconia, avevo programmato di andare alla festa cittadina de “l’Unità”; per “servire il popolo”. Mi dicevo così e nella mia testa la frase, ancorché retorica, suonava proprio bene.
Mentre uscivo di casa, alla volta dell’ex mattatoio, a Testaccio, dove, per l’appunto, era in svolgimento la festa romana dell’allora Pds (da pochissimo non più PCI e non ancora DS), assaporavo il passaggio dal pomeriggio alla sera, accarezzata dagli ultimi scampoli di Ponentino.
Avevo il piglio di chi avrebbe cercato di incidere sul futuro della società, anche se, nel frattempo, si sarebbe prosaicamente accontentato di cambiare il proprio presente.
Giunto a Testaccio mi presentai allo stand di competenza della mia area territoriale: un ristorante. Mi misero subito al lavoro. Se dovevo servire il popolo, del resto, non potevo mica stare in panciolle.
Servii con una certa dose di malagrazia e molta incompetenza. Forse anche per questo, il popolo da servire, a tratti, fu sgarbato.
A fine serata ero in grado di districarmi tra i tavoli meglio di quando avevo iniziato, ed avevo anche imparato a disinnescare sul nascere qualche principio di polemica sul disservizio, sull’attesa, sulla qualità o quantità delle portate.
Di figure femminili che potessero farmi essere un po’ meno single, manco l’ombra.
Diedi una mano con le stoviglie e i pentoloni. La pulizia della cucina del ristorante di una festa cittadina de l’Unità, in una città come Roma, è impegnativa. Ero giovane, tuttavia, ed anche motivato, perciò, quando mi proposero di dare una mano nel vicino stand birreria, non mi tirai indietro. Magari, tra una Peroni e una Ceres, fermo restando il mio prioritario impegno, sempre orientato al cambiamento della società, potrebbe essere più facile incontrare quella figura femminile che favorisca un cambiamento, in meglio, del mio presente – pensai.
Servii birre, patatine e hot dog – tutti cibi che stavano al cambiamento sociale, più o meno, come il McDonald’s alla rivoluzione castrista – fino a notte fonda.
Non faceva più tanto caldo, il clima virava anzi verso il fresco, quando, infine, sistemati tavoloni, casse e barilotti di birra, mi dissero che avevo servito a sufficienza il popolo e potevo tornare a casa.
Single come quando la serata era iniziata, ma molto più stanco, solcavo i sampietrini dell’ex Mattatoio oramai deserto quando vidi, al centro del piazzale principale, un musicista. Suonava il flauto, da cui proveniva una melodia accattivante. Suonava per se stesso. Per la notte che se ne andava. Forse, senza saperlo, pure per me e per quei pochissimi che ancora dovevano ritirarsi da quel luogo ormai desolato.
Mi fermai ad ascoltare e il musicista non sembrò nemmeno accorgersene. Mi venne in mente una canzone che amavo moltissimo, nella quale il flauto svolge un ruolo preponderante, e trovai il coraggio di chiederla: “Scusa, non è che potresti suonare il flauto de “la Bourré”, nella versione dei Jethro Tull?”. Il suonatore, che fino a quel momento non aveva mostrato di accorgersi della mia presenza, fece un mezzo inchino di assenso e, senza soluzione di continuità, intonò la canzone, nella precisa versione che conoscevo e amavo.
Rimasi ad ascoltare per un po’. Prima che la musica finisse, feci anch’io un mezzo inchino di ringraziamento e ripresi il cammino, diretto verso casa.
Avevo inciso pochissimo sul futuro della società e, almeno nei termini auspicati a inizio serata, per nulla sul mio presente. Sembrava che non fosse successo niente, eppure, mentre andavo via, accompagnato dal flauto di quello sconosciuto, mi sentivo bene. Felice, quasi.
Era estate, sicuramente settembre, albeggiava e faceva oramai freddo.
Il giorno dopo avrei dovuto riprendere a studiare.
Ero pronto.
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