Li ho visti passare intorno all’una di notte. Avevano i capelli bagnati, l’asciugamano intorno alla vita, i piedi scalzi. Pioveva di lato, con poche gocce che restituivano, però, una sensazione d’autunno. Succede sempre così. Tutti gli anni, a ferragosto o giù di lì. Succede che cambi il tempo. All’improvviso. E ti faccia riflettere per l’ennesima volta su come tutto cambi in fretta. Troppo.
Quand’è, per esempio, che si passa dall’età dell’incoscienza a quella della responsabilità? Questi ragazzi, stretti nei loro asciugamani umidi, incuranti del freddo che pure sentono, sono chiaramente nella fase dell’incoscienza.
Una stagione felice, tutto sommato. Nella quale poco o quasi mai pensi alle conseguenze del tuo vivere. Se prendi freddo può che essere che poi ti ammali. Lo sanno questi ragazzi. Eppure restano. Con l’aria fredda che soffia da terra, uno spicchio di luna in cielo e, di fronte, il mare nero di notte. Intorno, tutto intorno, un vestito di umidità.
Potrebbero mai pensare questi ragazzi che un ponte può crollare? Non un ponte lontano, nel tempo o nella geografia. No. Quello alle loro spalle, per esempio, che hanno attraversato una o mille volte, che hanno visto dal basso o dall’alto. No, non lo pensano. Per la verità, non lo pensa nemmeno chi si trova nell’età della responsabilità. Eppure è appena successo. Questi ragazzi si tuffano di notte e guardano i fuochi d’artificio sparati lungo tutto il litorale proprio la sera del giorno in cui si è spezzato il ponte a Genova.
Non può cadere un ponte. Non qui. Non ora.
L’Italia repubblicana era giovane nel 1967, quando venne inaugurato il Ponte Morandi. Una giovane adulta di 22 anni, in un’epoca in cui, codice civile alla mano, si diventava adulti ai 21.
A quell’età si ha fiducia. Non regoli le tue azioni in base alla paura di qualcosa di avverso. L’Italia aveva fiducia in se stessa, nei propri mezzi, nelle proprie intelligenze. Il Ponte Morandi era una enorme dimostrazione di fiducia in se stessi. Un’opera ardita. Un ponte che correva altissimo. Collegava due parti della città e, a passarci sopra, sembrava pure che collegasse la terra e il cielo.
Bisognava avere davvero fiducia in se stessi per pensare a un’opera simile. Fiducia nella progettazione, nei mezzi, nella tecnica. E pure nel calcestruzzo. Che non è eterno. Forse lo sapevano già allora. Però, vabbè, ci penseremo poi, quando saremo grandi.
Siamo cresciuti ma, evidentemente, non ci abbiamo pensato abbastanza.
Ho letto un articolo nel quale un ingegnere americano, un certo Henry Petroski, spiegava come in ogni costruzione si annidi un errore di progettazione che, prima o poi, in determinate condizioni, potrebbe rivelarsi. E sarà una rivelazione preziosa per evitare che quell’errore venga ripetuto nelle costruzioni successive. L’ingegnere capace, allora, non è quello che non commette errori ma, spiega ancora l’ingegnere americano, colui il quale, nel suo lavoro, si sforza di pensare sempre all’impossibile. Ecco la responsabilità: avere la forza visionaria di pensare anche all’impossibile.
Sembra un paradosso, no? Si tende a pensare che da giovani si guardi all’impossibile e da adulti, con realismo, a ciò che è possibile.
Quello stesso ingegnere americano cita un suo collega russo, un certo Lev Zetlin, secondo il quale “L’immaginazione e la paura sono gli strumenti più preziosi di cui un ingegnere dispone per scongiurare la tragedia”.
Sono un po’ confuso. Non riesco a trovare la logica. Forse sta in questo: la vita è un difficile equilibrio tra fantasia e terrore. Tra incoscienza e responsabilità. Tra il freddo della notte e il fuoco che riscalda.
Allora questi ragazzi, che vanno incontro alla notte vestititi di umido, radunandosi intorno ai falò che hanno resistito alla pioggia appena caduta, sono più avanti di me. Nella inconsapevole comprensione delle cose.
Entro l’estate voglio farlo anche io: un bagno nel mare nero di notte, con la luna in cielo e il freddo addosso. Per poi correre a scaldarmi. In equilibrio tra fantasia e terrore. Prima che tutto cambi. Troppo velocemente.
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