Avevo un’amica, fino a una settimana fa.
L’avevo conosciuta nel 2010, una mattina di settembre. Era un brutto periodo per me, allora. Orribile, anzi. La incontrai, non era la prima volta, ma quella mattina, alla domanda “come stai?”, risposi per come era veramente la situazione.
Iniziammo a conoscerci così, uscendo dalla sequenza ordinaria del Tutto bene/tu?/ pure io/grazie/anche a te.
Spesso bisogna uscire da un sentiero noto per conoscere qualcosa o qualcuno.
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Mi proposero di lavorare con lei, qualche mese dopo. Accettai e iniziammo una collaborazione che è durata quasi sette anni.
Nell’ambito di questa collaborazione, diventammo amici. Amici sul serio. Ogni tanto ci scazzavamo, certo. Perché due persone hanno caratteri, sensibilità, visioni diverse. Però ci capivamo e, nella diversità, ci integravamo.
Scherzando tra di noi, e qualche volta pure in contesti semi-ufficiali, dicevamo che lei era un turbo e io un diesel. Insieme, quindi, dicevamo ancora, rappresentavamo un motore turbo-diesel in grado di fare qualcosa di buono.
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A un certo punto mi confidò di avere conosciuto una persona che poteva diventare importante. La persona giusta. Può anche non capitare mai di incontrarla. Lei, invece, a un certo punto l’aveva incontrata. Era contenta. Proiettata in avanti. Iniziava a progettare.
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Un anno fa, di questi tempi, arrivò una diagnosi. Infausta. Un tumore cattivo. Uno dei più malvagi. Non le diedero nessuna possibilità di guarigione. L’obiettivo divenne durare il più a lungo e il meglio possibile. Quanto? Sei mesi, un anno, forse tre anni, magari cinque. Chi lo sa? Perché non sperare venti? Perché mettere un limite? È un campo, dicevo io. in cui non si hanno certezze: se è improbabile ammalarsi, eppure ci si ammala, allora perché, seppure ti dicono che è impossibile, non si può sperare di guarire?
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Durante l’estate mi capitò di riscoprire una canzone di quasi quarant’anni fa. S’intitola Mad World e, nella versione in cui l’ho ascoltata, solo voce e pianoforte, risultava particolarmente struggente. Sono andato a cercare il testo e mi sono imbattuto in un passaggio che mi sembrava fotografasse la sua situazione.
Sono stato varie volte sul punto di dirglielo, non l’ho fatto mai. Temevo che potesse prenderla male.
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Le cose sono iniziate a peggiore alla fine dell’anno scorso. Le terapie non facevano più effetto. Allora le cambiavano farmaco, ma la situazione non migliorava più.
Combatteva la mia amica. Eccome se combatteva. E lavorava. Lavorava tosto, sodo. Punto di riferimento costante. Per tutti.
Mi sentivo forte, finché c’era lei.
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La situazione è precipitata all’improvviso. Ci siamo visti un giorno. Il giorno dopo sentiti al telefono. Non era venuta in ufficio, aveva preferito andare a stare qualche giorno dal suo amore. Abbiamo parlato di lavoro. Poi ci siamo salutati. Ciao. Stai bene. Ti abbraccio. Clic.
Non saprei dire se fosse stato quel clic ad avere avuto un suono strano. Fatto è che, appena finita la telefonata, avrei voluto richiamare per dirle una sola cosa: “Per favore non te ne andare”.
Non l’ho fatto. Perché pensavo che l’avrei intristita. Perché, mentendo a lei e a me stesso, in tutti questi mesi avevo sempre mostrato di avere fiducia.
Lei non lo sapeva, ed io nemmeno, ma le erano rimaste quaranta ore
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Avevo un’amica, fino a una settimana fa.
In realtà ce l’ho ancora. Le chiedo quotidianamente consiglio, mi ci confronto, ogni tanto ci scazziamo.
Ora le voglio svelare il passaggio di quel testo che mi aveva fatto pensare a lei.
Nascondo la testa voglio affogare il mio dolore
Nessun domani
Nessun domani
E lo trovo un po’ buffo
lo trovo un po’ triste
Che i sogni in cui sto morendo
Siano i migliori che abbia mai avuto.
Mi ha ascoltato. Non se n’è andata.
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