Il mio primo maggio


Maperò ve lo racconta con chi il lavoro non ce l'ha più. Con chi, ancora giovane, con famiglia figli futuro da costruire, il lavoro lo ha perso


di Lilli Mandara
Categoria: Maperò
02/05/2018 alle ore 08:26



Il primo maggio Maperò ve lo racconta con chi il lavoro non ce l’ha più. Con chi, ancora giovane, con famiglia figli futuro da costruire, il lavoro lo ha perso e non ha santi a cui votarsi. Ve lo racconta con le lacrime, sì le lacrime (perché per scrivere questa storia, mettere a nudo i propri sentimenti, le proprie speranze deluse, la propria disperazione) di Carlo Strinella e di un gruppo di lavoratori che è rimasto a piedi a metà della propria vita. Porte chiuse, per loro, porte aperte a chi ha i famosi santi in paradiso. E’ questo il primo Maggio di Mapero’, al fianco di questi ex lavoratori. E di tutti quelli nelle loro stesse condizioni. 

Sono Carlo, aquilano doc, di quelli nati dentro le mura medievali della città.

Ho 48 anni, una moglie, due figlie dalla prima vita e un bimbo dalla seconda vita: lo spartiacque fra le due vite è tutto in una notte, quella tra il 5 e il 6 Aprile 2009.

La gioia della nascita del terzo figlio nel 2013, post-sismico dunque, ha mitigato la tristezza dell’aver perso mamma (non “con” il terremoto ma poco tempo dopo “di” terremoto), amici, conoscenti, luoghi, la mia casa, la mia città e mi donò l’illusione di essere ringiovanito ma contemporaneamente ha aumentato lo “spread” familiare che oggi mi vede con una figlia al primo anno di università, una in seconda media e l’ultimo all’asilo. Tutti e tre a mio carico e con mia moglie quattro.

Durante l’ultimo anno dell’istituto tecnico industriale, nel lontano 1989, mi impegnai molto perché avevo un sogno: entrare nel giovane e dinamico laboratorio di ricerca e sviluppo della Italtel SIT, qui, nella mia città. Sfiorando il massimo dei voti divenni perito informatico, ma non bastò. Da quell’anno ci fu un’inversione di tendenza e l’azienda assorbì pochissimi neo-diplomati.

Mamma Italtel era un’istituzione, una garanzia, un colosso che ad inizio anni ’80 contava oltre 5000 addetti a L’Aquila, più di venti anni di attività e garantiva benessere, stabilità e lavoro a moltissime famiglie.

Dovetti proseguire gli studi per rincorrere quel sogno e partecipai, con successo, alla prova di accesso per 20 posti in una nuova scuola universitaria sperimentale per la preparazione di tecnici esperti in apparati digitali di trasmissione di cui l’Italtel necessitava; però, c’erano speranze di essere assunti nel laboratorio di ricerca e sviluppo se, e solo se, lo studente avesse dato gli esami secondo un cronoprogramma serratissimo e con un certo profittto.

Presi a due mani la mia forza di volontà e anche un bell’esaurimento nervoso e conseguii, con lode, presso la facoltà di Ingegneria, il diploma universitario cioè l’antesignano della laurea breve o di primo livello codificata di lì a poco dal nuovo ordinamento universitario.

Il 16 Marzo 1992, a soli 22 anni, realizzai dunque il mio sogno ottenendo un contratto di lavoro a tempo indeterminato in Italtel. Nel sito di L’Aquila lavoravano circa 3500 persone, ed io, fieramente, ero una di queste. Il lavoro, l’ambiente, gli argomenti, i colleghi, tutto era molto “hi-tech” e stimolante per me: mi ritenevo veramente molto fortunato.

Ero entrato per il rotto della cuffia però, perché poi, per i cinque anni successivi, non ci fu più nessuna assunzione; “bisogna dimagrire”, “bisogna “alleggerirsi”, ci dicevano, perché da impresa a partecipazione statale doveva diventare più profittevole, aumentare la redditività, appetibile per divenire un’azienda privata.

Grazie alla collaborazione con grosse multinazionali americane ed europee, agganciammo una nuova tecnologia delle telecomunicazioni e questa cosa, in un certo senso, suscitò l’interesse della multinazionale tedesca Siemens, un mostro sacro delle telecomunicazioni, che acquisì il laboratorio denominandolo Siemens ICN prima e CNX-Siemens poi. Con la forza commerciale dei tedeschi nei primi anni 2000 raggiungemmo l’apice del nostro prestigio divenendo centro di eccellenza per le telecomunicazioni.

Con i nostri apparati furono trasmessi dagli operatori di tutto il mondo olimpiadi, mondiali e altri eventi planetari; un vero vanto per noi di Siemens L’Aquila. Ma nell’ambito della tecnologia le cose procedono rapidamente e ben presto fu necessario aggiornarsi per rimanere al passo delle evoluzioni tecnologiche. Ci rimboccammo le maniche e sviluppammo nuovi apparati, più moderni, in linea con le richieste del mercato ma non fu sufficiente: perché? Perché non si vendevano più?

La risposta è complessa ma in prima approssimazione si può dire che erano sorti e giunti sul mercato, da lontano, nuovi competitors: l’estremo oriente, la Cina.

Quei ragazzotti cinesi che all’inizio del millennio venivano da noi a fare stages, tirocini, training on the job, quei ragazzi che dopo la pausa pranzo si addormentavano sulle nostre scrivanie con la testa raggomitolata tra le braccia e a cui noi non davamo molto peso perché impegnati alacremente nel nostro lavoro, quegli inviati da lontano, acquisivano, apprendevano metodi, tecnologie e processi e li trasmettevano in casa loro.

Poco tempo dopo nel proporre i nostri nuovi prodotti ai gestori telefonici e di dati realizzammo che eravamo rapidamente scivolati fuori dal mercato perché aziende asiatiche proponevano ai nostri clienti sostanzialmente le stesse soluzioni tecnologiche ad un prezzo più di tre volte inferiore al nostro. Questo fu l’inizio della fine delle telecomunicazioni in Italia e più generalmente nel vecchio continente e dunque anche del nostro magnifico laboratorio. Primavera 2005, Siemens annuncia di volersi ritirare dall’Italia e di voler praticamente abbandonare il mercato delle telecomunicazioni, ambito nel quale è stata un leader assoluto per svariati decenni.

Inizia un’estate rovente, una lunga crisi che vede noi ricercatori lottare con le unghie e con i denti arrivando a fare oltre 100 giorni di sciopero, con manifestazioni, cortei, blocchi autostradali e ferroviari, interventi in convegni in tutta Italia, di tutto e di più per sensibilizzare ed invocare l’aiuto delle istituzioni locali e centrali.

Governo Berlusconi III, ministro alle Attività Produttive Scajola, presidente della Regione Abruzzo Del Turco.

Niente da fare. Le istituzioni non vollero, non seppero trattenere, arrestare la fuga dall’Italia della Siemens e per noi, per il nostro sito aquilano si affacciò una nuova proprietà, di più modesta solidità economica e dimensioni, di mercato ed industriale di svariati ordini di grandezza inferiore.

Ad ogni modo, superato lo shock, ci rimboccammo di nuovo le maniche e facemmo nostro il nuovo corso con la nuova azienda denominata TechnoLabs; nuovi prodotti, esplorazione di nuovi ambiti diversi da quello storico di appartenenza cioè delle telecomunicazioni. Ci credevo, ci credevamo, ci dovevamo credere, ma…ma poi la crisi, la grande crisi, la debolezza commerciale, le scelte strategiche sbagliate ed infine il terremoto aquilano del 2009.

Tragedia, sgomento, diaspora, esilio, caos totale per tutti ma, resilienti e razionali, presto tutti ci guardammo in faccia e ci dicemmo “bisogna onorare gli impegni presi con i clienti, bisogna evadere gli ordini, andare avanti con i progetti altrimenti qui oltre le case, gli affetti perdiamo i clienti e rimaniamo anche senza lavoro!”.

E così 15 giorni dopo il big one, martedì 21 Aprile 2009, in mezzo alle tendopoli fuori e dentro il comprensorio industriale di Pile, compressi in uno stabile solo parzialmente agibile, con il caschetto di sicurezza in testa, con le uscite spalancate e il cuore che sussulta ad ogni minimo tremore, siamo di nuovo tutti operativi in ufficio provenienti da Giulianova, da Pescara, da Roma, da Roseto….

Finiamo, completiamo e consegniamo quanto avevamo in lavorazione ma non arrivano nuovi lavori, nuove commesse e allora arriva l’utilizzo massiccio di ammortizzatori sociali.

Cassa integrazione per (quasi) tutti e dunque a casa: ma quale casa? Da Aprile sono sfollato a Giulianova in affitto in un quartiere popolare in attesa delle costruende “casette” antisismiche del duo B&B: Berlusconi e Bertolaso.

Cassaintegrato. Non dovendo andare in ufficio, da inizio autunno 2009 faccio avanti e indietro dalla costa solo per far frequentare alle figlie la scuola a L’Aquila, ma non per puntiglio o per campanile ma perché è la condizione necessaria per poter rimanere in graduatoria ed ottenere un’appartamentino nel progetto CASE a Febbraio 2010.

Come una manna dal cielo, a Giugno 2010, al nostro laboratorio di ricerca e sviluppo viene commissionato un grosso lavoro dall’altro gigante delle telecomunicazioni europee e mondiali, la svedese Ericsson. Non si tratta di nuovi apparati da progettare ma di completare, manutere e ampliare dei sistemi già sviluppati: ma va bene così, si torna tutti al lavoro!

La commessa è grande e anche abbastanza duratura e questo spinge la proprietà Compel, che ad ogni modo aveva deciso di vendere e di uscire, a rimettersi due lustrini e a cercare acquirenti per noi di TechnoLabs L’Aquila.

Una lunga fase di “due diligence”, cioè di investigazione e di approfondimento di dati e di informazioni relative ad una trattativa per valutarne la convenienza e i rischi, precede l’acquisto del sito aquilano da parte di una nuova compagine societaria, la Intecs.

E’ questa un’azienda italiana con più sedi che opera principalmente nei servizi alle grosse aziende tecnologiche e con poca attitudine verso la progettazione di prodotti da proporre al mercato e per questo ci avevano comprato.

Le loro sedi nascono, principalmente, in prossimità delle aziende a partecipazione pubblica (gruppo ex-Finmeccanica ora Leonardo) dove “vendono” tecnici a tempo: un po’ come il camioncino della porchetta davanti allo stadio quando c’è la partita.

Body renting, tradotto affitta-corpi, affitta-cervelli. Cioè tu non vali come gruppo complessivo di lavoro dotato delle professionalità per l’intera filiera della progettazione tecnologica dall’ideazione, specificazione, sviluppo, prototipazione, validazione, industrializzazione, commercializzazione fino all’assistenza al cliente all’altro capo del mondo, ma vali come singolo se servi a qualcuno dei miei contatti, per il tempo che gli servi e se la tua paga oraria mi consente di venderti a prezzo conveniente di mercato lasciando una bella fetta di guadagno per me. Punto. Questo è il nuovo mondo del lavoro dove non ci sono capitani coraggiosi, nè investitori, nessuno che sappia prendersi i rischi, nessuno che creda ad un progetto ambizioso in poche parole senza imprenditori con la I maiuscola ma solo “prenditori” disposti a rischiare nulla e ad aspettare le molliche che cadono dalla tavola delle aziende di Stato.

Io, noi con molti anni di anzianità e, aggiungo, di esperienza, con un’età anagrafica media ben sopra ai quaranta, per le fredde e ciniche imprese di servizi, le aziende “paguro”, le interinali, le somministratrici, le affitta-cervelli, noi siamo come animali preistorici e abbiamo chances prossime allo zero perché costiamo troppo (così dicono ma è da vedere!) e facciamo più fatica ad accettare, ma lo abbiamo fatto obtorto collo, una vita con il trolley in mano per stare 2 mesi lì, poi 4 di là, poi a casa 5 mesi in ammortizzatore sociale perché io impresa al momento non ho a chi “venderti”. Tanto è.

Quindi con la Intecs, malgrado diversi tentativi di riconversione, riqualificazione e differenziazione è stato un matrimonio andato a male perché la sposa sembrava bella e con la dote e invece è diventata racchia e capricciosa, un incauto acquisto, è stato come mescolare l’acqua con l’olio: puoi frullarli quanto ti pare ma sempre separati rimangono.

La Ericsson, anch’essa sfiancata e sfibrata dalla concorrenza asiatica, non ha nuove commesse per noi mentre quella precedentemente affidataci giunge al capolinea e con essa, in prima approssimazione, anche il glorioso laboratorio di Ricerca e Sviluppo per le Telecomunicazioni, il centro di eccellenza già di Italtel, Siemens, TechnoLabs e infine Intecs.

Un po’ di numeri: autunno 2011 entra Intecs e siamo oltre 160, nel 2012 alcuni escono in mobilità volontaria, inizio 2013 l’azienda licenzia 17 lavoratori, maggio 2017 licenzia 13 lavoratori, dicembre 2017 licenzia tutti i 70 circa restanti.

Portone chiuso e lucchetto e tutti in fila al CPI (Centro per l’impiego) a far domanda di disoccupazione.

L’azienda non permette l’accesso alle persone per recuperare i propri beni personali in ufficio, comunica maldestramente il licenziamento a mezzo raccomandata l’antivigilia di Natale, non paga in termini di legge e dunque trattiene la liquidazione (che sono soldi del lavoratore!!), non paga l’indennità di mancato preavviso.

Molte energie del collettivo dei ricercatori licenziati, in questi mesi, sono state spese in azioni legali per recuperare quanto gli è dovuto e per opporsi ad un licenziamento ingiusto piuttosto che curare l’aspetto della ricollocazione.

Ho pianto il 22 Dicembre scorso, ho pianto molto nel vedere i volti dei miei ultraventennali colleghi sgomenti, ho pianto mentre salvavo le mie piante apprezzate da tutti e ormai votate alla morte, ho singhiozzato mentre prendevo dalla scrivania i disegnini colorati che i figli nel tempo mi hanno preparato affinché li portassi in ufficio dicendomi “Così ogni tanto pensi a noi mentre sei al lavoro!”.

Ho amato tanto il mio lavoro, ho dato tutto quanto potevo, mi sono comportato ed ho agito sempre come se l’azienda fosse stata la mia; ho partecipato, ho perfezionato, ho riparato, ho curato dalla strumentazione alle piante, dai clienti ai fornitori, dalle riunioni direzionali a scaricare un camion, perché mi importava, lo facevo perché era come se lo facessi per me.

Ma non è servito, mi sono illuso, il business non guarda in faccia a nessuno. Mi resta qualche apprezzamento, la stima dei colleghi, qualche pacca sulla spalla e la soddisfazione di avere fatto bene il mio lavoro: ho la coscienza a posto. E dico pure che lo rifarei perché sono fatto così. Il problema è che non me se ne dà la possibilità.

E’ una gran brutta sensazione quella di sentirsi scartato, infungibile (così recitano le motivazioni del licenziamento collettivo), inutile, improduttivo è una lama bollente che ti entra nel fianco e non ti fa respirare. E’ umiliante incrociare lo sguardo dei tuoi cari che escono mentre tu rimani in casa con la testa tra le mani. Ora, sperimentandolo in prima persona, capisco meglio la rabbia dei colleghi che sono stati licenziati prima della chiusura collettiva in maniera individuale, nominativa e ingiusta.

Diventa una vita disordinata, non più scandita dai ritmi dettati dagli orari di lavoro; ti devi saper gestire altrimenti sei perso. Non esistono ferie, vacanze, riposo: ferie da che? Buon fine settimana di che? Che qui ormai i giorni sono tutti uguali!

Hai potenzialmente tanto tempo in più per fare cose e invece, per quanto mi riguarda, mi pare di averne molto meno perché non è organizzato, perché in fondo nella giornata non trovi mai la sensazione di aver fatto il tuo dovere, di esserti procurato il pane per la tua famiglia.

E di lavoretti, servizi, volontariato ne ho fatto e ne faccio ma sempre ti rimane in testa che quello non è lavoro. E’ un attimo trovarsi col pigiama alle due di pomeriggio o a prendere boccate di ossigeno che ti levino l’affanno dei pensieri alle 3 di notte sul balcone. Si rischia tanto, tantissimo. Si rischia di isolarsi dagli altri perché tutti hanno buoni consigli da darti, tutti vogliono spronarti, stimolarti a reagire, a mandare curriculum in giro ma tu percepisci che molti lo fanno per lavarsi la coscienza, per togliersi di dosso l’imbarazzo nei tuoi confronti e che sono pochi, pochissimi, quelli che riescono ad entrare profondamente nel tuo stato d’animo, nel tuo dramma.

Non è che siamo in America, in Inghilterra, in Germania o a Dubai, siamo nel cratere post-sismico aquilano, il luogo tra i più depressi di una provincia depressa, di una regione depressa e bi-fronte che va a due velocità (Abruzzo interno vs Abruzzo costiero), del mezzogiorno depresso di una nazione, l’Italia, depressa.

E se a 48 anni esci da un contratto a tempo indeterminato nell’industria, sei fuori dal giro, sei spacciato non ci rientri più; se sei fortunato attraverso le agenzie intermediare, poiché le aziende hanno preferito demandare a terzi le patate bollenti, puoi trovare un po’ di lavoro somministrato per pochi mesi con contratto di apprendistato a tempo determinato e periodo di prova di 3 mesi.

Alcuni amici hanno firmato contratti di 2 mesi, di 3 settimane! Vai, vai in banca a chiedere un mutuo oppure una finanziaria per una spesa urgente con un contratto del genere o col cedolino della Naspi in mano! Sai che risate!

A Natale scorso la mia famiglia è passata da mono-reddito a zero-reddito e Dio solo lo sa quanto faccio fatica ad accettare che per mandare avanti la casa, per vestire i figli e per le necessità di tutti i giorni debba attingere dagli acconti della liquidazione, il trattamento di fine rapporto che nel mio immaginario erano il tesoretto da tenersi da parte per la vecchiaia, per un imprevisto, per sposare una figlia!

Molti ti dicono “vai al Nord”, “vai all’estero” ma vi pare facile spostare di punto in bianco una famiglia radicata nel territorio, con i genitori anziani, con la rete di conoscenze, con la casa qui?

Ah la casa! Siamo usciti di casa il 6 Aprile 2009 e siamo rientrati ad Ottobre 2017: 8 anni e mezzo di attesa e tutti i nostri risparmi prosciugati! Ma come le case non le ricostruiva il governo? Sì, ma ad un certo punto della storia, per le nuove linee guida per il maggior risparmio sulla ricostruzione, la nostra casa è passata dal dover essere abbattuta e ricostruita al dover essere riparata e, per la nostra maggiore protezione, abbiamo scelto l’abbattimento volontario e ricostruzione con quota in accollo che, manco a dirlo, si è rivelato essere quasi il doppio di quanto era stato preventivato.

Col senno di poi era meglio non ricostruirla perché adesso, senza lavoro e con la prospettiva di dover levare le tende rappresenta più una zavorra. Le case te le tirano dietro qui ormai. Tante famiglie se sono già andate e tutta la città e il circondario è una lunga sequenza di cartelli “Vendesi”

Siamo 70 circa, è vero, siamo vecchiotti per l’attuale mondo del lavoro globalizzato che mastica e risputa giovani neolaureati e precari a ritmo frenetico e troppo giovani per smettere di lavorare, vorremmo rimanere in questa terra, siamo bravi e disposti a ricominciare.

Venite a trovarci, ci riconoscerete, abbiamo lo sguardo stanco di chi da 4 mesi sta in vetrina dentro un camper stazionato sotto il palazzo della Regione Abruzzo.

I padri costituenti erano illuminati e hanno voluto metterlo come primo articolo della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, il lavoro per tutti, prima che il reddito di cittadinanza, per restituire la dignità alle persone di buona volontà.

 

twitter@ImpaginatoTw