“Ho vinto tutte le elezioni”, e nel dirlo lo sberleffo. A chi magari in quella tornata aveva perso, a chi era scomparso dalla scena politica. Prove muscolari a gogo. Lui vince, vince sempre, non ha mai perso: è questo il suo mantra e il mantra di tutto il centrosinistra che quando c’è da dare una spallata al centrodestra schiera lui, il vinco-tutto-io, all’attacco o a centrocampo, come Maradona.
Manco per niente: Luciano D’Alfonso non è imbattibile. Perchè una volta, almeno una, all’inizio della sua carriera politica, è stato sconfitto. Anzi, ha preso proprio una bella mazzata. L’uomo che lo ha steso, quando lui 25enne provò la scalata al Comune di Lettomanoppello come candidato sindaco, è un suo concittadino ed è stato sindaco del suo paese per cinque legislature di fila a partire dal 1975, e lui davvero non ha mai perso un’elezione. Finché dodici anni fa, nel pieno della carriera politica, ha mollato tutto e ha detto: “La politica non fa più per me”.
Giuseppe Dionisio, 68 anni, due lauree, venti chilometri al giorno di arrampicate in montagna e dedizione assoluta agli studi di sociologia e filosofia, per la verità vanta anche un altro primato: di D’Alfonso ne ha sconfitto anche un altro, Quintino, il papà del governatore. Era il 1975 e tutti e due si candidarono per fare il sindaco: Dionisio con la bandiera del Pci, D’Alfonso senior con quella della Dc. Battuto.
Poi, alla quarta legislatura, ci provò Luciano a scippare la poltrona al sindaco: era il 1990 e fu una campagna elettorale violentissima.
“Io vinsi per duecento voti, tanti per Lettomanoppello. Sì, fu una campagna elettorale violenta perchè c’era molta passione. Lui, D’Alfonso, era un giovane rampante, voleva fortemente emergere mentre io ero già affermato, un politico di lungo corso. Insomma, andava giù pesante. Ma non c’era solo l’attacco personale, era lo scontro tra il Pci e la Dc”.
Come se la ricorda, quella campagna elettorale?
“Ricordo i comizi di chiusura: si svolsero in contemporanea, in due piazze diverse, il paese diviso a metà. Fu uno scontro ferocissimo, e non solo perché da una parte c’era il Pci e dall’altra la Dc. D’Alfonso era giovane e molto ambizioso, usava toni molto violenti. Per carità, anche io all’epoca lo ero: c’era il giovane rampante che si giocava tutto e iniziava la sua carriera politica e il vecchio politico, all’epoca avevo 40 anni, e quindi i toni si rivelarono molto forti”.
Quindi lei è stato l’unico politico che ha battuto D’Alfonso. Come sono i suoi rapporti con lui, oggi?
“Siamo diventati amici, subito dopo quella famosa campagna elettorale. Ancora oggi quando mi incontra mi abbraccia e mi sprona a ricominciare, a tornare in politica, e lo dice anche pubblicamente, ma io ho chiuso con quel mondo, è troppo diverso da quello in cui mi sono formato. Io ho lasciato per convinzione e non tornerei mai indietro”.
Però il governatore non ha mai detto pubblicamente che lei è stato l’unico a batterlo?
“Questo non lo so, in effetti non l’ho mai sentito”.
Cosa successe dopo quella sconfitta?
“Successe che lui rischiò anche di perdere le elezioni provinciali e vinse alla fine solo per pochi voti. Quelle elezioni rappresentarono per lui lo spartiacque: se avesse perso, la sua carriera non sarebbe stata la stessa, o comunque avrebbe rallentato la sua corsa”.
Com’era all’epoca D’Alfonso?
“Era già bravo, lo è sempre stato. Era sicuramente molto ambizioso. Per carità, pure io lo ero: ma lui aveva una carica molto forte, a spronarlo c’era una ambizione molto personale. Nella mia ambizione c’era invece anche molto partito, che speravo di portare avanti, sempre più avanti”.
Dionisio è un politico di altri tempi: colto, preparato, scuola di partito, eloquio dotto, citazioni, equilibrio, una voce impostata. Non è che D’Alfonso si è ispirato a lei, magari senza riuscirci?
“Ai miei tempi Giorgio Napolitano mi disse che ero il miglior oratore d’Abruzzo. Io militavo nella sua corrente, all’epoca, e per la precisione mi fece, sorridendo: “Se non fossi così stupido, saresti come Terracini”.
Naturalmente, lo “stupido” era detto affettuosamente,. Insomma, un complimento.
“Adesso, quando ascolto i nostri politici in tv, mi metto le mani nei capelli e mi chiedo che scuola abbiano fatto: discorsi vuoti, dove le parole non hanno un senso, gettate lì alla rinfusa”.
Quindi D’Alfonso?
“D’Alfonso credo si sia molto ispirato a me, all’inizio. Poi ha preso il volo e un’altra strada”.
L’eloquio del governatore è roboante, immaginifico, a volte senza senso però.
“Ma lui non ha avuto grandi maestri e in maniera automatica si è affidato al quotidiano. Io ho fatto la scuola politica delle Frattocchie e ho avuto maestri del calibro di Barca e Amendola, e mi incantavo ad ascoltarli, e molti di quegli insegnamenti li utilizzo ancora. E poi sono stato, già a 17 anni, segretario di sezione del Pci (non della Fgci eh), con 250 iscritti: il mio paese, Lettomanoppello, dava al partito il 70 per cento”.
Un consiglio glielo darebbe, magari per il lessico?
“No, per carità, io sono ormai fuori e chi è fuori ha sempre torto. In generale posso dire che un buon manager non è certo quello che fa tutto lui ma che sa far lavorare gli altri. Vedo anche che a capo degli enti e delle società ci sono personaggi con curricula piuttosto modesti, senza preparazione e competenze”.
Ma lei alla fine D’Alfonso l’ha votato?
“Sì, l’ho votato alla Regione. L’ho votato per affezione, diciamo così, non perchè condividessi ciò che diceva o ciò che faceva”.
Lucino D’Alfonso
Perchè ha lasciato la politica?
“L’ho lasciata dodici anni fa, nel pieno della mia carriera. Forse sono stato l’unico ad abbandonare la scena politica con le cariche ancora in mano. Ma mi resi conto che non c’era più alcuna corrispondenza tra il bene pubblico che noi avremmo dovuto perseguire e le nostre azioni. La politica era diventata personalistica, individualistica, e si stava creando un sottobosco di potere. Con me anche altri hanno fatto questa scelta. Poi non credevo più in questo partito che non riusciva più a parlare ai ceti sociali più deboli. Insomma, stava venendo meno tutto ciò in cui avevo creduto e per cui avevo lavorato. Mi sono fatto da parte”.
Lei da ragazzo ha cominciato anche la carriera universitaria.
“Ero assistente alle prime armi di Manlio Buccellato, me ne andai quando fu introdotto il 18 politico. Ma questi che promuoviamo col 18 dovranno andare a insegnare a loro volta, dissi al professore. Per me, non era possibile. Lasciai perdere. I risultati ora li vediamo. Il dramma di questa nazione è che non c’è neppure una opposizione decente. E il motivo è che non ci sono uomini in grado di farla, per preparazione e per autonomia”.
La politica di oggi come la considera?
“Non so se sia meglio o peggio, so che è diversa ma non demonizzo nessuno. Io non vedo grossi politici in giro, diciamo che non c’è grossa cultura politica ma sono anche convinto che se ci fosse ancora oggi la vecchia guardia politica, gli uomini come Renzi non avrebbero avuto spazio”.
E gli stuoli di sudditi che circondano il governatore consegnandosi mani e piedi a lui o a chi, come lui, comanda?
“Commettono errori gravissimi e ancor di più se sono sindaci, perché si rischia di deludere le aspettative dell’elettorato: il sindaco è il capo di una comunità, se questa funzione viene a mancare poi l’elettorato ti punisce”
Ha qualche rimpianto?
“Sì, ho un forte rimpianto. Mi capita a volte di pensare: ma non è che ho lasciato troppi vuoti e che questi vuoti sono stati riempiti da gente sbagliata? Ecco, io quando ho abbandonato la politica non avrei mai pensato che il mio, i nostri posti, sarebbero stati riempiti dalle terze e quarte file. Invece, purtroppo, è stato così”.