Cinquecento, ottocento, mille. Ma cosa importa. Cosa importa a un presidente di Regione muscolare impettito e arrogante se lì sabato sera al Palaettra-due per l’apertura della campagna elettorale c’erano tante o poche persone.
Conta lo spettacolo. E lo show must go on: come ieri mattina, quando Luciano D’Alfonso si è presentato negli uffici dell’Aca guidata da Luca Toro a distribuire volantini, come ai tempi d’oro, anzi d’acqua, del partito dell’acqua.
Che importa, anche se il colpo d’occhio conta, eccome se conta, e allora spostiamo il palco in avanti di qualche decina di metri in modo che si accorci la distanza con la platea, pannelliamo gli spazi vuoti, portiamo amici parenti nipoti a fare da comparse. E poi fotografiamo col grand’angolo e tagliamo gli spazi vuoti.
“Io non sono patrimonio mio, sono patrimonio dell’Abruzzo”,
dice, per questo si è candidato. Una frase impegnativa, autocelebrativa, ai limiti della personalità narcisistica. Ma ha detto anche altro Dalfy, ha citato di nuovo, con quella sua tipica ossessione per le donne, l’europarlamentare Daniela Aiuto e ha aggiunto che per colpa sua Mattoscio ha avuto un avviso di garanzia, “ma solo per la complessità della materia”, non certo per una ipotizzata violazione di regole e di leggi. Eh no, lo decide lui Dalfy ciò che reato e ciò che non lo è.
C’erano ottocento persone, più o meno, cinquecento da Gianni Chiodi il suo competitor a Teramo, se vogliamo fare i conti della serva. Più o meno il colpo d’occhio è lo stesso.
Ma che importano i numeri, se alla fine D’Alfonso nonostante l’esibizione di muscoli e di forza e di sprezzo del pericolo e delle leggi, si è fatto candidare in un seggio blindato e sicuro? E’ un mistero, ma forse no. A dispetto di quello che dice, forse i voti gli servono per cercare di conquistarsela l’ambita poltrona da ministro (a volte dice Infrastrutture, pochi giorni fa al mercato ha detto del Mezzogiorno), o per riscattare la figuraccia del referendum quando aveva garantito a Renzi i voti che poi non ha avuto.
Perché un animale da elezioni come lui cerca il seggio sicuro e fa campagna elettorale ventre a terra?
C’entrano la vanità, il tentativo di cambiare le carte in tavola e di dimostrare che quei voti se li sta sudando, c’entra la voglia di appagare gli staffisti, di farli correre in vista di un obiettivo che sarà solo suo anche se in molti lo condividono e contano di raccoglierne le briciole.
C’entra la psicologia, il gioco del volantino consegnato al semaforo, del porta a porta con le signore di mezza età al mercato (un giovane non si vede manco a pagarlo), c’entra l’operazione simpatia che lui attiva premendo il tasto “on” ad ogni elezione e non certo la strategia elettorale.
E allora, chi c’era sabato sera? Tanta gente sì. In platea, nei posti riservati appena sotto il palco c’erano tutti i candidati, i sindaci i presidenti di Provincia, c’erano tutti i nominati, c’erano i presidenti di società partecipate dalla Regione, c’erano i manager delle Asl, perfino il trombato Rinaldo Tordera venuto apposta dall’Aquila, c’era Manuel De Monte presidente di Abruzzo sviluppo con moglie, Luca Toro dell’Aca, c’erano tutti i riceventi asilo (incarichi, pardon), tutto il mondo che ha avuto già o che è in procinto di ricevere (perché ricordiamolo, dopo il Parlamento si vota alla Regione), c’era tutto il meraviglioso mondo dalfonsiano, compresi i lettesi comprese le amiche gli amici i vigilantes i portaborse gli autisti privati e quelli pubblici, i figli che distribuivano volantini, c’era il fido Dudù, all’anagrafe Marzio Cimini che abbandonati gli abiti da dandy indossava una felpa rossa con tanto di slogan elettorale. Ma non c’erano loro, gli imprenditori.
No, non c’erano, eppure altre volte erano in primafila, i Toto, i Pierangeli i Tosto. Un brutto segno, forse si sono già riposizionati in vista di una vittoria del centrodestra oppure nell’incertezza meglio non farsi vedere, eppure dieci giorni fa andavano tutti a braccetto.
Dietro, sugli spalti, diviso da una rete, il pubblico abituale di Dalfy, quello che lui chiama a raccolta con gli sms e le telefonate che tutti in questi giorni abbiamo ricevuto. Tanti o pochi che importa. Non importa niente: Dalfy si è candidato in un posto sicuro, e hai voglia a dire che lui non avrebbe voluto e che gliel’hanno chiesto da Roma e che gli hanno offerto persino un posto da ministro, perché lui è una risorsa. No, anzi, che risorsa, lui è “patrimonio dell’Abruzzo”.
ps: lui andrà a Roma, incontrastato, anche se il Pd dovesse andare male, malissimo come dicono i sondaggi. Il Palaettra era pieno. Sì, pieno di comparse.