Pescara, al Mediamuseum I Promessi sposi in dialetto abruzzese


"Ssu spunsalizie nen s'à da fà": il celebre romanzo di Manzoni riambientato sul Lago di Bomba


di Redazione
Categoria: Eventi e Cultura
09/02/2018 alle ore 20:19



La Fondazione Edoardo Tiboni per la cultura, l'Associazione Culturale Ennio Flaiano, l'Associazione Culturale Profumo di scena presentano al Mediamuseum di Pescara la versione teatrale  in dialetto abruzzese de "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni dal titolo "Ssu spunsalizie nen s'à da fa'". Lo spettacolo andrà in scena sabato 10 febbraio alle ore 21,00, domenica 11 febbraio alle ore 18,00, lunedì 12, martedì 13 e mercoledì 14 febbraio alle ore 21,00.

Drammatizzato in dodici scene il romanzo è riambientato sul Lago di Bomba, dove Don Rodrighe, il signorotto del paese, vuole impedire le nozze tra il terrone 'Nzine e la "padana" Lucietta, ovvero Cijètte, nata dal matrimonio tra la nostrana Agnese ed un non meglio specificato uomo del nord.

"Ssu spunsalizie nen s'à da fà'", questa la minaccia che i bravi riportano al pauroso Don Abbondie. Fra' Crisommele aiuterà i due giovani, forte della propria esperienza e della cieca fiducia nella "Divina Pruvvedenze". Cijètte si rifugerà in convento sotto la protezione della monaca di Mozzagrogna, ma Don Rodrighe riuscirà a farla rapire con la complicità de lu 'Nnummenate, un potente signore chietino, col quale troverà un accordo nonostante quest'ultimo sia tifoso del Chieti mentre lui lo è del Pescara. 'Nzine, dopo varie peripezie e dopo essere scampato alla peste, portata negli Abruzzi dai temibili Marchigiani, ritroverà Cijètte e potrà finalmente sposarla.

Grande  attenzione è stata rivolta all'uso del dialetto: termini ed espressioni dialettali, oggi desueti e ignoti a molti, rinviano ad un mondo che in parte non esiste più (soprattutto quello legato alla vita contadina) ma che è possibile in qualche modo ricostruire attraverso un approccio filologico e storiografico, con risultati a volte sorprendenti. Basti un esempio: l'espressione "à ite a fà' la terra pe' li cice", cioè "è andato a fare la terra per i ceci", significa metaforicamente "è morto ed è stato sepolto sottoterra (non in una cassa, che non tutti potevano permettersi)", e letteralmente "è andato a concimare la terra su cui crescono i ceci". Ma perché i ceci, e non i fagioli, o qualche altra coltura? Scopriamo dapprima che l'espressione è di origine marchigiana e non abruzzese. Dopo, che ai tempi di Carlo Magno i ceci erano un alimento talmente importante che la sua coltivazione era obbligatoria, per legge, su tutto il territorio dell'Impero e, infine, che le Marche erano il confine meridionale di tale impero. Dunque, una espressione strana, bizzarra e curiosa è in vero portatrice di contenuti storici e culturali di primo acchito inimmaginabili.