È sempre una questione di quid. Lo fu un tempo per Silvio Berlusconi con Angelino Alfano che, infatti, alla lunga, avendo preso coscienza dell'inconsistenza, si ritira. Lo è oggi per Beppe Grillo con l'avellinese Luigi Di Maio indicato premier in pectore dai pentastellati, ma alle prese con l'amletico dubbio che precluse, già allora, l'ascesa al giovane forzista agrigentino.
Manca anche a Luigino quel qualcosa che mancò ad Angelino. Quella qualità innata che gli altri, tutti gli altri, non possono non vedere e non riconoscere. Che emerge spontanea, naturale. Quell'attitudine al comando, quella capacità di farsi capire e di farsi seguire. E di farsi rispettare anche da chi la pensa in maniera opposta.
Il problema è il quid. E così, più passa il tempo più questo Di Maio mostra d'essere un'incognita per i Cinque Stelle. Incognita che può mutare rapidamente in danno, rendendo sterile il loro messaggio di cambiamento e di rinnovamento.
Lo si è già notato in Sicilia: sarebbe bastata un'ultima settimana elettorale accanto a quell'istrionico caterpillar di Grillo per vincere, invece con un intero mese al fianco di Di Maio, il candidato alla presidenza della regione Cancelleri ha dovuto dire mestamente addio ai sogni di gloria.
Forse per questo motivo, perché se ne sta rendendo conto, Grillo sembra sempre più assente, sempre più defilato e lontano. Proprio ora che comincia la partita. Giorno dopo giorno, gaffe dopo gaffe, congiuntivo dopo congiuntivo, quella del Luigino premier appare una scelta sbagliata.
Seppur sia stata lungamente ponderata e calata dall'alto da quell'ennesimo delirio di onnipotenza della rete chiamato enfaticamente "piattaforma Rousseau": una specie di play station con la quale alla Casaleggio&Associati sbarcano il lunario e si divertono a disegnare strategie e percorsi politici. Beppe Grillo, che è guitto, lo ha inteso.
Lui, che è animale vero da palcoscenico, lo ha capito. L'ha sentito subito che la scelta è stata sbagliata. Ma non potendo più cambiarla in corsa, ha cominciato a staccarsi lentamente dal carro, ad allontanarsi. Negando, ovviamente, di farlo.
Quella scelta, di primo acchitto, parve la più adatta. Aplomb rassicurante, faccia pulita da bravo ragazzo, eleganza partenopea, ben rasato, buoni modi: magari sarebbe piaciuto persino al Cavaliere se almeno avesse preso uno straccio di laurea! Invece è stata - e sempre per i medesimi motivi! - la scelta più sbagliata che il Movimento potesse fare.
Perché non c'è dubbio: al Luigino manca per l'appunto il quid. Manca quel che non si può comprare né prestare né regalare e neppure rubare. Grillo e Casaleggio junior l'anno capito solo un attimo dopo. Ma troppo tardi. Forse per presunzione. O forse perché da scegliere c'era assai poco in quel mazzo che si sono ritrovati in mano dopo l'exploit del 2013.
C'era l'Alessandro Di Battista, vero. Ma probabilmente lo si è considerato come un inesperto replicante dell'originale, dell'istrione inventore dei Vaffa. Troppo popolano Dibba per diventare popolare. Buono, magari, per altro: tipo sostituire in corsa sulla poltrona di Sindaco di Roma quel disastro vagante di nome Virginia Raggi.
Valutazione che ora, viste le scialbe performance di Di Maio, sarebbe sicuramente rivista. Ma tant'è. Per i Cinque Stelle ormai è Luigino a correre. E perciò saran dolori elettorali. Perché è uno che sembra finto ancor prima di proferir verbo (e magari d'azzeccarlo!). Perché leader non lo si nasce soltanto: lo si può anche diventare. Ma sarà sempre e soltanto una questione di quid.
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