Usa, la testimonianza di Comey prefigura davvero un'ostruzione della giustizia da parte di Trump?




Categoria: ESTERI
09/06/2017 alle ore 14:43



Washington, 09 giu 11:51 - (Agenzia Nova) - La testimonianza dell'ex direttore dell'Fbi James Comey di fronte al Senato, ieri mattina, ha confermato che l'amministrazione del presidente Trump non ha mai tentato di insabbiare le indagini federali in merito alle intromissioni russe nel processo elettorale, e che non esiste alcuna prova di una "collusione" tra la campagna elettorale dell'attuale presidente e il Cremlino. Le ricostruzioni fornite da Comey delle sue conversazioni con Trump, però, trasmettono l'immagine di un outsider della politica che non ha ben chiare le sfumature dell'equilibrio tra poteri costituzionali, né di quale sia la condotta più prudente all'interno delle stanze del potere di Washington. Soprattutto, resta aperto il quesito su Trump abbia davvero compiuto un reato di ostruzione della giustizia, auspicando nel corso di una conversazione privata con Comey la chiusura delle indagini a carico del consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, poi dimessosi dall'incarico.

Secondo il "New York Times" e la "Washington Post", il fatto che Trump non abbia espresso una richiesta esplicita, ma un auspicio, e che Comey lo abbia ignorato, non bastano a scagionare il presidente: la decisione di Trump di allontanare i suoi collaboratori e intrattenersi da solo con Comey, prima di esprimere l'auspicio in merito a Flynn, segnalerebbe l'intento del presidente di insabbiare le indagini a carico del suo collaboratore, e la consapevolezza di commettere un atto illecito. E il presunto atto di "lealtà" richiesto da Trump a Comey durante una precedente conversazione suggerirebbe un "qui pro quo", scrive Matt Zapotosky sulla "Washington Post"; il rifiuto di Comey di interrompere le indagini a carico di Flynn, inoltre, potrebbe essere la causa del suo successivo licenziamento, il mese scorso.

Comey si è ben guardato dall'accusare il presidente di ostruzionismo o esprimere questi ipotetici nessi logici, ma secondo Zapotosky a farlo potrebbe essere il procuratore speciale chiamato a indagare sul "Russiagate", Robert Mueller. La "Washington post", però, ospita anche un editoriale che esprime una valutazione della questione diametralmente opposta, a firma dell'ex procuratore federale Andrew C. McCarthy. Secondo McCarthy, quanti imputano a Trump un tentativo di ostruzione della giustizia dimenticano di menzionare che tale fattispecie di reato prevede "l'intento corruttivo", e che il presidente, in quanto tale, gode di discrezionalità sul fronte dell'azione esecutiva. E' impossibile, sostiene l'ex procuratore, imputare a Trump un qualunque intento corruttivo, specie basandosi sulle sole impressioni dell'ex direttore dell'Fbi: di solito, sottolinea McCarthy, i casi di ostruzione della giustizia riguardano plateali tentativi di corruzione da parte, ad esempio, di un funzionario pubblico; e non è mai successo, nella storia della giurisprudenza Usa, che un individuo - men che meno un presidente - sia stato condannato per aver espresso un auspicio in merito all'esito di una indagine da parte di una agenzia alle sue dipendenze. Questa considerazione, scrive l'editoriale, conduce direttamente al tema della discrezionalità del potere esecutivo: "capita ogni giorno, all'Fbi e negli uffici delle procure statunitensi disseminate per il paese, che gli agenti federali e i procuratori decidono di chiudere indagini e di non perseguire ipotesi di reato. Molti di questi casi sono fondati, ma questi funzionari del potere esecutivo giudicano che le circostanze depongano contro la prosecuzione delle indagini". Tali valutazioni, sottolinea l'ex procuratore, avvengono sulla base di fattori personali e contingenti, ad esempio il contributo di un indiziato alla società, la sua fedina penale e le possibili alternative alla prosecuzione penale. Si tratta di una discrezionalità dell'azione penale che deriva però direttamente proprio dal potere esecutivo del presidente: "Ci piace pensare alle forze dell'ordine come entità isolate dalla politica (...) ma nel nostro sistema, semplicemente, le cose non stanno in questo modo. L'Fbi e il dipartimento di Giustizia non sono rami separati del governo, ma soggetti giuridicamente subordinati al presidente. Non esercitano un loro potere, dal momento che la Costituzione attribuisce il potere esecutivo al presidente". Anche ammettendo che Trump non si fosse limitato ad auspicare la fine delle indagini a carico di Flynn, ma avesse ordinato apertamente la loro interruzione, legalmente non gli sarebbe imputabile, secondo l'ex procuratore, alcun abuso di potere; specie considerando il fatto che per ammissione di Comey, Trump non provò mai a insabbiare le indagini sulle intromissioni della Russia nella campagna elettorale, anzi: secondo lo stesso ex direttore dell'Fbi, in una chiamata del 30 marzo l'ex presidente auspicò che l'Fbi facesse piena luce sulla condotta dei suoi subordinati. I pareri espressi da Trump in merito a Flynn, e all'opportunità di proseguire le indagini a suo carico, sono stati insomma secondo McCarthy una legittima espressione della discrezionalità del potere esecutivo presidenziale. Sarebbe stato differente, conclude l'ex procuratore, se Trump avesse esercitato la sua discrezionalità in modo tale da "minare il nostro sistema di giustizia", come fece Nixon nel contesto dello scandalo Watergate, quando tentò di insabbiare sistematicamente le indagini federali a suo carico.

La condotta di Trump, insomma, resta controversa. E l'unica parola definitiva in materia, a questo punto, potrà giungere solo dal procuratore speciale incaricato delle indagini sulla Russia, Robert Mueller. (Sit)