Volano gli stracci al Consiglio di Stato. Dove con un voto a sorpresa, i giudici amministrativi hanno dato scacco all’uomo più potente di Palazzo Chigi. Paolo Aquilanti, segretario generale della presidenza del Consiglio che il governo Renzi aveva voluto omaggiare nei mesi scorsi del titolo di consigliere di Stato. Ora il braccio destro del ministro Maria Elena Boschi dovrà scegliere: prendere servizio a Palazzo Spada o restare dov’è. Perché la componente togata della giustizia amministrativa gli ha negato, come noto, la possibilità di mantenere il doppio incarico. Quel che invece non è noto è lo scontro che si è consumato nelle ovattate stanze di Palazzo Spada dove si riunisce l’organo di autogoverno dell’intera magistratura amministrativa.
Uno scontro evidenziato dal verbale della seduta in cui 9 consiglieri hanno sconfessato, mettendola in minoranza, la linea del presidente del Consiglio di stato, Alessandro Pajno. Che avrebbe invece voluto autorizzare Aquilanti a proseguire il suo incarico a Palazzo Chigi senza perdere i galloni di consigliere di Stato. La bocciatura del resto vale più di un avvertimento. Specie per Aquilanti. Che ha alla firma un provvedimento che riguarda gli organici della giustizia amministrativa e che da tempo langue sulla sua scrivania a Palazzo Chigi: per questo i membri togati che siedono a Palazzo Spada non si sarebbero fatti sfuggire l’occasione per mandargli un segnale forte e chiaro.
Il documento che Impaginato.it ha potuto visionare ben descrive il clima drammatico in cui si è consumato l’inedito strappo istituzionale. Di voto “illegittimo perché contro legge” ha parlato il membro laico dell’organo di autogoverno, l’ex parlamentare dem, Pierluigi Mantini. Che ha espresso “profonda amarezza per l’esito della votazione”. Convinto che “l’organo di autogoverno, o perlomeno alcune sue componenti, non è all’altezza del ruolo”. E che poi ha tentato l’affondo contro i ‘ribelli’ che si sono opposti all’idea di lasciare Aquilanti al suo posto in uno dei ruoli più strategici della macchina governativa, mettendolo di fatto con le spalle al muro. “Se a questo voto si unisce anche qualche interesse di carattere sostanziale, personale o di gruppo, la questione potrebbe avere un qualche rilievo che va oltre il profilo dell’illegittimità” ha detto Mantini che ha evidenziato nella stessa occasione “la grave delegittimazione” inferta allo stesso Pajno.
Ma a quale interesse si riferisce Mantini? L’allusione è stata pesante e non si è fatta attendere la secca replica di chi si è sentito chiamato in causa. Una replica di questo tenore: se Mantini adombra sospetti “allora ci denunci nelle sedi competenti”. Toni del genere dalle parti di Piazza Capo di Ferro a Roma non si erano mai sentiti. Per i giudici tar che attendono da tempo lo sblocco del concorso per rimpolpare l’organico, la nomina a consigliere di Stato di Aquilanti (che dal principio non avrebbe avuto alcuna intenzione di lasciare il suo posto a Palazzo Chigi), è stato un “vulnus”. Specie mentre “il plesso si trovava e si trova tuttora, costretto ad operare con una scopertura di organico che da oltre un anno che è a dir poco allarmante”. La questione non è chiusa: la pratica è ora tornata in commissione. Forse in attesa che da Palazzo Chigi Aquilanti, da Segretario generale dia un segnale che possa convincere i consiglieri ribelli a ripensarci e a lasciarlo lì pur senza dover rinunciare alla nomina a vita a Palazzo Spada.