Pagare per farsi dire bene: quando la reputazione si compra…



di Elisa Leuzzo
Categoria: Editoriale
15/09/2025 alle ore 15:56



Viviamo in un'epoca in cui apparire conta più di essere e la visibilità, spesso, vale più delle qualità o delle competenze. In questo contesto, la reputazione è diventata una moneta. E come ogni moneta, si può costruire, investire… oppure comprare.
C'è chi paga prima, per ottenere lodi su misura.
E c'è chi paga dopo, per modificare critiche già espresse.
Ma c'è anche un terzo caso, ancora più insidioso, ed è quello della critica costruita a tavolino con un obiettivo preciso: ottenere soldi, incarichi o favori per smettere di colpire.

Pagare influencer, blogger o giornalisti per ricevere una recensione positiva è ormai pratica comune.
Se dichiarata, è legale. Ma resta comunque pubblicità travestita da opinione.
Non si esprime più una valutazione critica ma si recita un copione a pagamento.
Sui social e nei media digitali, questa dinamica si è ormai normalizzata.
Ma “normale” non vuol dire innocua: si distorce il giudizio del pubblico, si costruisce una fiducia artificiale e si svuota il valore dell'opinione autentica basata su rappresentazioni reali.

Ben più grave è pagare dopo una critica, dopo che qualcuno ha già espresso un parere negativo, magari duro, ma sincero.
Qui non si cerca consenso ma si cerca di zittire il dissenso.
Chi ha espresso parere non graditi viene contattato, convinto, “ammorbidito”. Magari con un compenso, una collaborazione, un incarico.
La sua opinione cambia. Ma non perché sia ​​cambiata la realtà: è cambiato il prezzo pagato.
Questo non è marketing, è manipolazione, revisionismo, controllo del pensiero critico.
E quando il pubblico se ne accorge, la fiducia si spezza.
Chi ascolta non sa più a chi credere.

E poi esiste la strategia più subdola di tutte le altre:
attaccare prima apposta, per farsi pagare poi.
Accade quando chi critica, a volte con toni esagerati, spesso senza veri argomenti, lo fa con uno scopo preciso: creare un problema, per poi vendere la soluzione: si lancia fango contro un ente, una persona, un progetto… e poco dopo ci si propone per “aiutare”, “collaborare”, “risolvere il malinteso”. Naturalmente, un pagamento.
È una forma elegante di ricatto: prima metto in difficoltà, poi mi faccio pagare per smettere.
E funziona, perché chi è sotto attacco spesso paga pur di mettere fine alla tempesta.
Ma questo non è giornalismo, non è attivismo, non è opinione libera:
è un sistema tossico che usa la critica come leva per guadagnare.
Non informa: manipola.
Non denuncia: monetizza.

In gioco c'è la credibilità di chi parla. E la fiducia di chi ascolta.
Se anche le critiche possono essere scritte per ottenere qualcosa, o cancellare con il giusto compenso, allora nessuna opinione è più affidabile.
Possiamo ancora credere a quello che leggiamo, ascoltiamo, vediamo?
Se tutto può essere negoziato, cosa resta di autentico?

Insomma, pagare in anticipo per farsi dire bene è già una forzatura.
Pagare dopo per far “cambiare idea” a chi ha critico, è una forma di censura ben mascherata.
E creare critiche a tavolino per ottenere qualcosa è un abuso di potere e un inganno sistematico.
Non è sufficiente che sia legale per essere giusto. E non tutto ciò che si può pagare ha davvero valore.