"In un mondo che è pieno di eroi, nessuno vuole essere Robin."*
* Cremonini Cesare, Trecuori srl, Bologna, 2018
C'è una finestra sempre accesa nelle serate italiane d’estate. Si chiama Temptation Island e, anche quest’anno, ha incollato milioni di spettatori allo schermo. La stagione 2025 ha registrato numeri da capogiro: oltre 3,8 milioni di telespettatori, con uno share che ha toccato il 30%, e picchi vicini al 50% nella fascia d’età 15–34 anni. Ma al di là della performance televisiva, resta una domanda: perché ci piace così tanto guardare gli altri vivere, desiderare, crollare?
Il successo di un programma come questo non si spiega solo con la regia ben costruita o con l’alternanza studiata di gelosie, falò, baci rubati e confessioni al chiaro di luna. La sua forza sta altrove: nella possibilità che offre allo spettatore di osservare senza essere visto, di entrare nella vita altrui restando protetto, di immedesimarsi senza rischiare. È il grande spettacolo del voyeurismo normalizzato. Un rito collettivo in cui ognuno può affacciarsi, compatire o deridere, e poi tornare alla propria vita sentendosi, almeno per un attimo, più saggio o più fortunato.
Aldo Grasso, critico attento della televisione italiana, ha più volte ricordato che la TV generalista è un luogo dove si formano immaginari e morale pubblica. La sua funzione non è solo estetica, ma pedagogica e simbolica. Quando la televisione riesce a raccontare le tensioni sociali, i desideri e le paure con un linguaggio comprensibile a tutti, diventa un dispositivo culturale potente. Temptation Island, sotto la sua patina di leggerezza estiva, parla in realtà alla parte più profonda – e spesso più fragile – di noi.
Ma il voyeurismo di oggi non è più quello torbido, segreto e patologico. È diventato un gesto sociale, partecipativo, condiviso. Guardare la vita degli altri è ormai un’azione collettiva: si commenta in diretta su Twitter, si costruiscono meme, si fanno previsioni come in un reality sportivo. L'intimità, per funzionare nel presente, deve essere spettacolarizzata. La vita privata, per diventare interessante, dev'essere pubblica.
Lo aveva già intuito Jean Baudrillard negli anni ’80, quando scriveva che la realtà contemporanea è sempre più sostituita dalla sua rappresentazione, e che i media non riflettono il mondo, ma lo creano. In una società di simulacri, diceva, ciò che conta non è ciò che accade, ma ciò che appare. E se c'è un programma che incarna perfettamente questa logica, è proprio questo: l’amore come gioco, il dolore come format, la fedeltà come countdown.
Eppure, proprio qui arriva la riflessione più pungente. Molti – con un certo snobismo – liquidano Temptation Island come un teatrino finto, artefatto, scritto. Ma no: non è affatto finto. È terribilmente reale. Quelle gelosie, quei tradimenti mal gestiti, quei pianti davanti al video, sono – per quanto estremizzati – lo specchio di un paese che ha trasformato la relazione in performance, la vulnerabilità in contenuto, la dignità in share.
Non c’è nulla di artificiale nel bisogno di essere visti per esistere. C'è piuttosto un disagio profondo, una fame di riconoscimento, una fragilità collettiva che si manifesta nel bisogno disperato di mettere tutto in piazza – persino il proprio amore. In questo senso, Temptation Island non è solo un programma. È un documento, uno specchio. E forse fa male guardarci dentro, ma proprio per questo non possiamo farne a meno.
Finché ci sarà una storia da spiare, una coppia da giudicare, un cuore che si spezza davanti a una telecamera, saremo lì a guardare. Non per cattiveria. Per quel bisogno fin troppo umano di capire chi siamo, osservando gli altri per non guardarci troppo da vicino.
Note
Aldo Grasso, Enciclopedia della Televisione, Garzanti, 2008.
Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, 1976.
Dati audience e share da fonti
Adnkronos, 25 luglio 2025 IoDonna.it, luglio 2025