La crisi economica del più grande gruppo immobiliare cinese ha posto in allerta i mercati finanziari di tutto il mondo, facendo riecheggiare gli effetti domino della recente pandemia sanitaria oltre a quelli della devastante crisi Lehman del 2008.
L’impossibilità di provvedere al pagamento di cedole su prestiti obbligazionari da parte di Evergrande, aveva fatto subito scattare l’alert di mercato già alcune settimane fa.
Nel 2020 la Banca centrale cinese aveva adottato una serie di misure a tutela del mercato del mattone, limitando l’indebitamento delle compagnie immobiliari e costringendole a detenere liquidità in proporzione ai debiti a breve termine.
Ciò aveva comportato che molte società non presentassero fedeli rappresentazioni della loro situazione debitoria per ridurre gli accantonamenti necessari.
Il periodo COVID aveva già rallentato la vendita degli immobili comportando un eccesso di offerta rispetto alla domanda con riduzione del livello dei prezzi e l’inasprimento normativo ha fatto da detonatore alla crisi: tutte le maggiori società immobiliari, a partire da Evergrande, avevano tentato vendite improvvise facendo crollare i prezzi alla disperata ricerca della liquidità richiesta dal Governo.
Nel tempo il gruppo aveva diversificato i suoi business, spaziando dai media alle auto elettriche, continuando però ad esporsi e coinvolgendo nella sua galassia i più grandi fondi di investimento,che oggi temono per il possibile default.
Al momento l’unico argine al disastro totale sui mercati è l’assenza di strumenti derivati sul debito di Evergrande: con i derivati gli effetti della crisi (sanitaria prima, normativa e finanziaria poi) si sarebbero moltiplicati.
Per un gruppo totalmente dipendente dal sistema bancario, con un’esposizione complessiva di 300 miliardi di dollari, restano due prospettive: -che la Società venga ristrutturata completamente, con una valorizzazione corretta degli asset ed il passaggio di una parte del patrimonio anche in mano ai concorrenti, - che prosegua l’immissione di liquidità da parte del Governo al fine di sostenere i titoli e contenere la crisi, andando così però controcorrente rispetto alla linea di rigore normativo adottata nel 2020.
Il giusto equilibrio dovrà essere trovato nel mix ottimale delle posizioni che dovranno essere tutelate: piccoli risparmiatori da una parte ed investitori istituzionali dall’altra, finanziatori del mercato interno e fondi del mercato estero.
Nella scelta peserà il potenziale danno d’immagine dell’economia cinese dopo la ripresa dal duro periodo Covid.
Resterà, comunque, il grave rischio di instabilità presentato dall’opacità dell’intero mercato finanziario cinese, già ampiamente evidente sia nei finanziamenti che il Governo attiva presso i Paesi che stanno sviluppando la Belt and Road Initiative (con clausole contrattuali sui finanziamenti che spesso modificano in maniera rilevante gli originari oneri dei prestiti) sia negli ingenti debiti che i Governi locali hanno verso banche e società finanziarie.
Il cuore della partita si gioca tra gli investimenti statunitensi spostatisi negli ultimi anni nei mercati cinesi e gli oltre 1000 miliardi di titoli del debito pubblico Usa sottoscritti da Pechino: a farne le spese potrebbero essere solo gli investitori, che potrebbero vedere decurtati in maniera significativa i valori dei propri asset.
Le aspettative, il lungo tempo necessario e l’effetto contagio potrebbero rivelarsi fatali.