Partiamo da un punto fermo. La crisi da Covid ha enfatizzato ovunque la presenza dello Stato nell'economia. Le chiusure forzate imposte dai Governi continuano a generare inevitabili, e gigantesche, perdite economiche in tutto il mondo. Solo in Germania, ad esempio, si stima che il lockdown abbia portato ad una perdita di PIL pari a10 miliardi di euro al mese. Ferite profonde, alcune delle quali non si rimargineranno più. Bisogna essere onesti. Interi settori dell'economia saranno spazzati via.
Ma ne verranno fuori anche di nuovi. La crisi è anche opportunità di positivo cambiamento. Sussidi, ristori ed assistenzialismo non saranno, però, sufficienti a porre riparo alla situazione "post bellica". Anzi, a ben vedere, se concessi a pioggia, finiscono per mantenere in vita un'economia zombie a scapito di tutti.
Che fare, allora? Bisogna tornare ad un'economia di mercato appena possibile. Questo è l'antidoto alla crisi pandemica.
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E' indubbio come la crisi abbia dimostrato quanto siano valide le soluzioni che nascono dall’economia di mercato. Basti pensare ai vaccini, sviluppati con successo da diverse aziende private in tempi record, o alla velocità con cui le imprese hanno convertito la loro produzione per fornire mascherine. L’intervento massiccio dello Stato durante la crisi è stato importante, ma non deve diventare la normalità. Queste, le parole di Jens Weidmann, Presidente della Bundesbank, in una recente intervista su Augsburger Allgemeine.
Lo Stato non è più adatto degli imprenditori per gestire le aziende, sostiene Weidmann.
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E figuriamoci qui in Italia, allora, dove le aziende di Stato non sono proprio sinonimo di redditività e di efficienza.
Ma il quadro economico è ancora più complesso di quanto possa apparire.
Il noto economista inglese, John Maynard Keynes, sosteneva che se il saggio di interesse è basso e l'individuo prevede che debba aumentare, gli conviene detenere moneta per effettuare gli acquisti in futuro.
Ecco, gli attuali bassi tassi di interesse - conseguenti la politica accomodante della BCE, che finiscono per erodere pericolosamente anche la redditività delle banche - hanno spinto i risparmi a livelli record. E questo non è un bene. I consumi si deprimono e le aziende vanno in crisi. Nel nostro Paese, poi, la situazione è ancora più difficile. Il risparmio, che inizialmente era una questione di riduzione dell’offerta, ora è diventato un problema di grave carenza di domanda. Il calo dei redditi, i vincoli alla mobilità, l'alta disoccupazione e l’incertezza, hanno finito per comprimere ulteriormente i consumi.
Keynes, però, non è mai stato contrario ad un'economia di mercato, anzi. L'impresa rappresenta lo strumento attraverso il quale il reddito monetario fluisce alle famiglie sotto forma di retribuzioni, sosteneva. Ma se i consumi si deprimono e i risparmi aumentano - come ora - il denaro esce dal circuito monetario. Ed una simile situazione diviene insostenibile per quelle aziende che operano nel mercato interno. I costi finiscono per superare i ricavi. E qui inizia la spirale negativa, per tutti. Per ristabilire l'equilibrio, diceva Keynes, le imprese devono ridurre i costi contraendo la produzione e l'occupazione, ma ciò finisce per influire negativamente sui loro ricavi, in quanto la restrizione dell'occupazione equivale ad una riduzione dei redditi delle famiglie, che dovranno restringere, a loro volta, la spesa. Una spirale senza fine, insomma. Ciò che è accaduto in Italia negli ultimi decenni per colpa di una politica disinteressata al bene comune.
La buona salute delle imprese, dunque, è fondamentale. E, senza un'economia di mercato, ciò non è possibile.
Eppure proprio Keynes è stato, in questi ultimi tempi, l'economista più volte, impropriamente, "tirato dalla giacchetta" da quella politica completamente disinteressata ai problemi economici e all'economia di mercato, madre della teoria del "PIL senza crescita" e della irrilevanza dei fattori della produzione. Da quella stessa classe politica incurante della disoccupazione giovanile, delle necessarie riforme strutturali, del benessere collettivo, del bisogno di un'istruzione di qualità, del merito e della tutela dell'impresa privata quale fonte principale del reddito delle famiglie.
Proprio per questo motivo lo Stato deve sì tornare ad occuparsi di una gestione "efficace ed efficiente" della giustizia, della pubblica amministrazione, della sanità, della scuola (seppure accanto a quella pubblica deve poter sussistere anche una buona scuola privata), ma deve rimettere al centro del sistema paese l'impresa, capace di muoversi e di trovare le giuste strategie in un mercato libero, poiché senza di essa tutta la società è destinata a crollare come un castello di carta.