La libertà incostante



di Piermaria Rasetti
Categoria: Riflessioni e Parole
04/02/2021 alle ore 01:23



L'Abruzzo è da poco diventato giallo. Ma questa volta non sono i colori delle foglie d’autunno – vi consiglio di attraversare la Teramo-L’aquila per godervi un gran bello spettacolo, ma a condizione che siate malati, lavoratori o studenti, mi raccomando; è piuttosto il colore della lista degli ammoniti, ancora calda dell’ultimo Dpcm. E quale momento migliore per invocare la cara e vecchia libertà. Così spesso reclamata e di recente così tanto implorata. Oh sì, torna da noi, libertà.

Tutti parlano di questa fantomatica signora, un po’ agghindata in fretta e furia prima di uscire, con evidenti aloni di fard, poverella, ha anche la sua età. Tutti parlano di questa libertà che ci è stata tolta. Bè, effettivamente non ci sta più di sottostare a certe norme. Stiamo sfiorando condizioni di regime, ohibò. Tutti vogliono indietro la libertà. 

Ma signori, la libertà, quella che sbandieriamo nelle strade a voce alta, o che ripetiamo sussurrandola all’orecchio della nostra insicurezza per tenerci al caldo, non l’abbiamo mai avuta. Non ci è dato neppure immaginarla.

Prima di approfondire il tema, specifico che molte delle mie riflessioni seguono e rielaborano alcuni capitoli di un testo estremamente acuto ma assai poco conosciuto, “Lo scimmione intelligente” (2009), collaborazioni dei filosofi Edoardo Boncinelli, matematico e Giulio Giorello, fisico.

Partiamo da una base incontrovertibile, quella biologica. 

L’uomo appartiene al regno animale ma tra questi animali l’uomo si distingue di fatto per alcune particolarità.

Cosa lo distingue?

il secolo scorso ha invocato una certa “plasticità infinita”, in pratica l’uomo è quello che ogni volta si fa.

Quindi niente di precipuamente umano, solo predisposizioni. Ma qualche secolo prima un certo René ipotizzava di sognare immaginando di saper dimostrare un problema matematico; al suo risveglio si rende però conto di non poter replicare la dimostrazione. Cosa fa pensare a René che anche dopo il risveglio lui non stia ancora sognando? Nulla. Tuttavia se dubito penso, se penso sono. L’imperfezione umana ne garantisce l’esistenza, in quanto cosa pensante. L’unicità umana per il buon René Descartes è il pensiero indipendente, la nostra inflazionata anima. L’uomo, specifica il filosofo, è definito in base ad un dualismo, l’incontro di sostanza pensante e di sostanza estesa, più concretamente – si fa per dire – anima e materia. Le discipline fanno il resto: la scienza studia il corpo; la religione, ei fu, studia il rapporto con Dio. La particolarità: l’anima inestesa è paradossalmente legata al corpo esteso. Descartes ci dice di più per chiarire l’apparente incongruenza: il suo dualismo è interazionista, la volontà, o anima che sia, può cambiare lo stato della materia. La materia è il nostro circondario, il nostro parco giochi, per semplificare le cose. E, punto saliente per la nostra analisi, in quanto capace di modificare le cose esistenti della materia, l’anima è sinonimo di libertà in quanto garanzia del successo tecnologico.

Come? 

Tra un attimo sarà tutto più chiaro.

Prima però ritorniamo al passato.

La grande, rivoluzionaria sconfitta del filosofo francese arriverà circa due secoli dopo la sua scomparsa, sotto il nome di teoria dell’evoluzione. Per lo scienziato Charles Darwin, suo teorizzatore, la distinzione uomo-animale si dimostrerà particolarmente sfumata. Quell’anello mancante, a furia di studi e ricerche, poi non è stato mai trovato.

È una sorta di ritirata della filosofia ante litteram.

Gli studi di Darwin avevano presupposti interessanti, non c’è che dire, oggi anche molto superati, ma di certo intuiamo autonomamente come l’uomo, in quanto distinto dalla macchina, non abbia un piano prestabilito da seguire. Eppure molti nella storia hanno sempre avuto un debole verso una concezione della vita di tipo finalistico. Se si spingiamo più in là del mero conforto teleologico arriviamo facilmente alla teologia naturale, di cui Darwin si era fatto più o meno coscientemente carnefice. 

Cassiamo rapidamente un ginepraio come questo, perché non pertinente, con le parole del Kant della Ragion pura: non è semplicemente possibile dimostrare o meno l’esistenza di Dio. E torniamo a bomba. Con un’altra domanda.

È possibile percepire la libertà?

Benjamin Libet ne sa qualcosa. Lo scienziato americano nel suo saggio più celebre, “Mind Time” (2004), ha mostrato come il cervello umano sia pronto per un’azione volontaria circa mezzo secondo prima che la persona stessa ne divenga consapevole. L’esperimento è stato condotto con un volontario, cronometrato, che a suo piacimento premeva un bottone. Nel controllo è risultato che tra la decisione di premere e l’azione compiuta passano circa 200 millisecondi. Fin qui nulla di strano. Ma se si registra il potenziale di prontezza, generato nella corteccia motoria supplementare nell’imminenza e in preparazione, questo precederà l’azione di 550 millisecondi e quindi la decisione di premere di 350 millisecondi.

Non è stato il soggetto a decidere, ma qualcosa ha deciso per lui, mentre la mente ne ha preso coscienza circa un terzo di secondo dopo. Libet ipotizza che la volontà cosciente non sia altro che un catalizzatore per permettere all’iniziativa preparata in modo inconscio di continuare fino a produrre l’atto. Così la sensazione cosciente di dare inizio o di produrre un’azione volontaria non sarebbe mera illusione.

La corteccia cerebrale forse ci inganna, facendoci credere che siamo noi a decidere. Meglio però non parlare di decisione. Diciamo piuttosto che la corteccia cerebrale prende atto.

Questione affine è quella dell’Asino di Buridano, la cui più attuale variante è il problema del semaforo: nel primo caso un asino viene posto equidistante da due mucchi di fieno egualmente appetitosi; nel secondo caso un semaforo diventa rosso mentre un pedone è esattamente a metà strada, capace di tornare indietro o completare l’attraversamento. L’asino o il pedone che sia moriranno potenzialmente l’uno di fame, l’altro investito, in quanto non c’è una sola ragione a livello conscio che li faccia propendere per l’una o l’altra scelta.

State tranquilli, le due storie hanno un lieto fine. L’intervento della natura cambia le carte in tavola: questa ci ha dotato infatti di una certa emotività, o impulsività, che risolve per vie brevi una serie di problemi che razionalmente non potremmo mai risolvere.

Per fare un paragone curioso, si prenda ad esempio la fovea, parte della retina dell’occhio molto ricca di fotorecettori, che restituisce una serie di dettagli nell’osservazione. Quando guardiamo qualcosa con attenzione spostiamo gli occhi in modo che l’immagine formata sul cristallino cada sulla fovea. Il resto della retina non ha la stessa risoluzione. La natura ha scelto quella data forma per permetterci una focalizzazione come quella che possediamo. Boncinelli parla di principio della fovea, o principio della lucidità differenziale. Il resto della retina di fatto non è inutile: se subisco un assalto alle spalle potrò intravederlo proprio grazie a quella zona della retina meno definita. Allo stesso modo l’emotività e la razionalità: la prima sta alla seconda come il resto della retina sta alla fovea.

L’asino di Buridano così come il principio della fovea si spiegano con una rottura di simmetria: la risposta definitiva si deve all’emozione. Una razionalità assoluta d’altro canto sarebbe eccessiva, se non proibitiva.

C’è ancora un elemento, biologico, che ci fa dubitare della nostra libertà.

Se fossimo obbligati a fare tutto ciò che ci dicono i geni, potremmo ancora parlare di libertà? Se ad ogni stimolo avessimo una risposta automatica il problema della libertà sarebbe uno pseudoproblema. Questa corrente di pensiero è definita come determinismo genetico.

Ma non temete, ha anch’essa delle falle. Sappiamo che l’uomo possiede circa 25000 geni e da una serie di calcoli è stata verificato che ogni neurone abbia circa 10000 contatti con gli altri, cosiddette sinapsi, e si da il caso che la nostra corteccia cerebrale contenga circa cento miliardi di neuroni. Come si spiega quindi che 25000 geni determinino questo milione di miliardi di sinapsi?

Semplice – pare assurdo dirlo: in parte è merito dei geni, d’accordo, ma una buona fetta delle decisioni è definita dall’esperienza.

Quindi la base biologica della nostra libertà coincide con la grandissima complessità delle nostre connessioni. Una questione problematica, certo, ma socialmente meno pericolosa di alcune sue derive, quelle deterministiche, che vanno dal già citato determinismo teologico a quello fisico, o meccanico.

C’è di buono che questa estremizzazione del percorso di un’esistenza condivide un certo fare contemplativo con il suo opposto, una concezione cioè di tipo non deterministico. Karl Popper le licenzierebbe entrambi come teorie non controllabili, dunque metafisiche.

Su questo punto il percorso epistemologico deve prendere coscienza di sé. Oltre certi limiti sappiamo bene quanto il discorso possa farsi mera speculazione.

La libertà umana non può che definirsi su gradi diversi di conoscenza, forse essa stessa si basa in definitiva sull’ignoranza.

Spinoza in una lettera del 1674 considerava una pietra che riceve per causa esterna una data quantità di moto con cui, cessata la spinta iniziale, continua per forza il suo moto, e che questa pietra abbia facoltà di pensare. Sicuramente crederà di essere libera e di persistere nel suo moto perché lo vuole. Ebbene, così è la libertà umana. siamo coscienti solo di desiderare ma non conosciamo le basi dalle quali il desiderio si determina. E su questo principio si basa l’opera forse più importante del filosofo olandese, l’Ethica.

Possiamo allora stringere il cerchio: quello di cui ci interessiamo non è una libertà dal mondo ma nel mondo – una sorta di dasein heideggeriano – e con questi presupposto la libertà non è mero libero arbitrio ma riduzione dei vincoli esterni al nostro agire.

Ma noi non possiamo negarlo, i vincoli esistono e sono ovunque, come la gravità, per non parlare di quelli più contingenti, come quelli geografici, economici, culturali e anche di oppressione.

Lo scontro però può tramutarsi in occasione. Certi vincoli considerati per secoli insormontabili sono stati aggirati grazie alla tecnica. È quindi libertà in quanto garanzia del successo tecnologico. Ecco il punto di contatto con la sostanza estesa cartesiana di cui sopra.

Nonostante una prolifica diffusione di testi sulla libertà nei quali l’unico percorso offerto è quello di fare astrazione dai vincoli, l’evoluzione culturale e la capacità fondamentale dell’uomo di agire non come singolo, fuori dal mondo, ma come Collettivo, hanno permesso a quest’ultimo di affrancarsi da alcune catene.

Perché allora l’uomo si comporta in alcuni casi come se non fosse libero?

Possiamo addurre ragioni materiali come la limitazione di un sequestro, o ragioni di condizionamento psicologico e sociale.

In passato l’uomo ha attraversato lunghi periodi in cui è stato ben poco libero, da qualsiasi punto di vista. Ad oggi, perlomeno in diverse ampie zone del mondo, questo non avviene più. Ma puoi ancora autosequestrarti.

D’accordo, la libertà fisica di questi tempi ci è stata tolta – pace alle profezie di Orwell, in questo caso si fa a fin di bene- ma la libertà di pensiero è ancora intatta. Bè, in realtà no. Affatto. In noi è presente una sorta di bramosia ad essere irregimentati. Periodicamente senza accorgercene ci ritroviamo ad abdicare al nostro cervello.

Non c’è di fatto un aumento del conformismo nelle nostre libere, liberissime, società?

Indubbiamente. Ed è un conformismo subdolo, difeso strenuamente, militante, di cui molti non sono neppure consapevoli.

Una sorta di coazione opera dentro di noi, autosequestro appunto. Nel ‘900 Erich Fromm definì “fuga dalla libertà” quell’impulso che ti respinge nel gregge.

Ma perché conformismo? Di fronte ad una rottura dei gioghi l’uomo si sente impotente, distante dal mondo, e quindi fugge dalla libertà verso una nuova schiavitù.

Questa autolimitazione è prodotta da idee precostituite – si veda “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse – che indirizzano il Collettivo verso un unico scenario, quello della tirannia dei valori. Ne parlava Nicolai Hartmann affermando come ogni valore, acquisito potere su una persona, ha la tendenza ad erigersi a tiranno esclusivo dell’intero ethos umano, alle spese di altri valori.

Carl Schmitt specificherà come questo dispotismo non faccia che fomentare l’antica lotta delle convinzioni. L’elevare una convinzione a valore finisce col giustificare qualunque mezzo in nome di quell’autentico regno dei fini, insopportabile nella pratica.

Nel secolo scorso di fronte all’agire umano si è diffusa una percezione di attenuante, sulla base di principi deterministici. L’individuo fa quel che fa perché è la sua natura. Ma sì facendo, inutile dirlo, si giustificherebbe un individuo, al limite dell’assurdo, delle sue azioni antisociali semplicemente perché compiute in linea con la natura antisociale dello stesso. Lo si solleva delle sue responsabilità ed in ultima istanza, aumentando le scusanti, ne riduci la libertà.

Ribaltando gli assunti secondo un’ottica performativa, per alcuni, se noi crediamo nel libero arbitrio allora ci comportiamo da persone libere. È quello che studiosi statunitensi hanno definito anticipazione determinante: se penso una cosa mi comporterò in una certa maniera per soddisfare ciò che ho pensato.

I pretesti biologici, come pure le sue punte più estreme, di marca deterministica, tendono a far sprofondare lo studio delle cause dell’agire nell’interiorità, alla ricerca dei “veri” moventi. È questa una deriva nata nel primo ‘900 forte della grande ascesa della psicanalisi sui cui risultati Ezra Pound si espresse con toni critici. Egli affermava come tutti i soggetti sottoposti ai trattamenti divenissero entità il cui comportamento era sempre spiegato e giustificato, effetto questo della cattiva cultura psicanalitica.

Principi e derive affini, queste, mostrano un seguito piuttosto esiguo di fronte alla macro questione della libertà come riduzione dei vincoli.

Il Collettivo ancora una volta può forse porre rimedio ad un’omologazione incisiva e corruttrice. Questi, di fatto, subordinerà il proprio libero arbitrio senza venir meno alla definizione stessa di libertà solo se in funzione di una libertà maggiore, quella di tutti. Ma il confine è di fatto molto labile. 

Significativo come Etienne de la Boetie ne “Discorso sulla servitù volontaria” esordisca: “se le bestie, che pure sono fatte per servire l’uomo, non riescono ad abituarsi alla servitù senza manifestare il desiderio opposto, quale sventura ha potuto snaturare tanto l’uomo… e fargli perdere il ricordo del suo stato originario e il desiderio di riacquistarlo?”

Sarebbe amaramente ironico ma mostrerebbe come sia forse questo il discrimine che ci distingue dagli animali, l’inclinazione al servilismo.

L’analisi offre tanti spunti, tante domande. Ma, come sempre i grandi testi hanno dimostrato, le risposte: no, quelle no. Ed anche suddetto articolo, debitore del saggio “Lo scimmione intelligente”, non può non chiudersi con una domanda. Considerando quel Collettivo che edifica l’uomo ma col rischio di conformarlo, che segue i bisogni della maggioranza ma riduce al silenzio quei pochi che vi si oppongono, quello stesso Collettivo che eleva preferenze etiche a valori comuni, connotandosi come tirannico, considerando tutto ciò, possiamo, dobbiamo davvero entrare a far parte di quella società organica – tanto cara a Durkheim – che dovrebbe garantire la nostra libertà? E ad ultimo, siamo realmente liberi?

 

Piermaria Rasetti