Il leccaculismo italico è più vivo che mai. In forma smagliante, addirittura . Quasi si fosse già inoculato il salvifico vaccino.
Un reggimento di servi, ipocriti, giullari e beneficiati rende omaggio a Cesare Romiti, morto a 97 anni, e nel mentre incensa, con identica lena, Mario Draghi che dal palco di Comunione e Liberazione prenota un futuro al Colle (Mattarella permettendo).
L’epitaffio del pensiero unico dedicato al manager scomparso s’intreccia così con il peana al banchiere riapparso. Non c’è virus o pandemia che tenga quando si tratta di servo encomio.
Muore Romiti, l’uomo Fiat, il mastino di Gianni Agnelli, e subitamente suona la fanfara che celebra con l’unica nota che conosce il “gigante”, il “capitano d’industria” l’ultimo “manager” e chi più ne ha di saliva più ne scriva. Tutti genuflessi, ricordanti e dolenti, a cominciare da quei gazzettieri assunti, pluripagati e pluripromossi e poi per anni dimentichi e prudenti nei loro distinguo.
Amen.
Parla Mario Draghi che è vivo, vegeto e circospetto e la solfa è del tutto identica: stesse fanfare e medesimi peana. Non arrivano a scrivere che è l’uomo della Provvidenza forse per evitare paragoni urticanti. Ma è chiaro che a lui guardano, si affidano e si rivolgono. Lui che, ci ripetono, ha salvato l’euro (senza però aver mai trovato un cronista che gli chiedesse “da chi?”) e che adesso è sulla vara portato a spalla da quelli che sperano di lucrarci ancora qualcosa. “Ha ragione”, “bel discorso”, e scroscio d’applausi che arriva da ogni lato. L’Italia si tiene strette tutte le sue peculiarità.
La pandemia prima o poi finirà, Il vecchio manager scomparso, tumulato con generale omaggio è subito dimenticato, il futuro possibile padrone si presenta, indica la strada spiegando che “i sussidi non sono per sempre” (come il suo quantitative easing) e genera nuova saliva e nuovi entusiasmi.
Il leccaculismo italico è più vivo che mai.