#LaCasaBlu (Un romanzo di Massimiliano Governi. Edizioni e/o collana Assolo)
La prima immagine che l’autore evoca è quella, se conoscete la serie televisiva, dei due protagonisti di True detective e della canzone che introduce il telefilm (ascoltatela qui). È importante per due motivi: uno è che, come i due soggetti narranti del libro (padre e figlio) anche i due detective si trovano spesso accanto, seduti in auto. Un’occasione per parlare, riflettere, ragionare, ricordare. L’abitacolo diventa un luogo chiuso dove i pensieri non scappano via ma diventano materiali e condivisibili tra i compagni di viaggio. L’altro è che quella musica è una colonna sonora perfetta per il racconto che leggerete: un ritmo cadenzato, tradizionale, country. Semplice, come i discorsi che compongono i capitoli, ma insieme drammatica e cupa, come il tema che Governi affronta con originalità e stile. La morte dolce, il diritto (o non diritto) a togliersi la vita in situazioni di grave sofferenza fisica o psichica. La casa blu è la destinazione del viaggio, che non è un “normale” viaggio di piacere e nemmeno di dovere: i due sono diretti a un luogo, in Svizzera, dove si somministra eutanasia a persone determinate ad andarsene via. Tutto è pulito, nitido come certi paesaggi di quel Paese: la scelta deve essere altrettanto netta, persino sulle proprie ceneri. Ci si vuole disperdere nel laghetto alpino o sui prati verdi, tra le mucche al pascolo? “Non riesco a capirla questa Svizzera, sembra proprio un posto senza anima… senza spirito…dà l’idea di una grande opera di ingegneria, un lavoro impeccabile di modellismo paesaggistico. È sicura, perfetta, pulitissima e quindi anche orribile, per questo non ha un’identità”. A questa “pulizia”, che vorrebbe neutralizzare il momento più drammatico (sono pochi quelli che hanno il privilegio di non temere almeno un po’ la morte), si contrappone la durezza e la crudeltà della malattia, lo strisciante annullamento di sé della depressione, la disperazione data dal perdere tutto ciò che si ha, i propri cari, con violenza data da altri uomini. Nel dialogo, durante il viaggio e le pause del viaggio, si alternano ricordi personali e storie di altri, intrecciate con quelle dei protagonisti. Un uomo senza nome, di cui si sa che è (o meglio era) un giornalista ed uno scrittore, affossato anche nella sua creatività dalla depressione, appunto: “non è una vera malattia, gli uomini se la sono inventata. E allora perché fa stare così male? Perché è peggio di una cosa vera, di una malattia mortale”. Un ragazzo, suo figlio, che lo accompagna “credendo” che si vada lassù per un lavoro, per un servizio giornalistico. Ci mette un po’ a capire chi sia l'”amico palindromo” di suo padre, lo Xanax, anche quando rievocano (pochi) momenti felici e senza pensieri del loro passato (come le partitelle a calcetto: “mi piaceva tanto accompagnarti. Mi sedevo sulla tribunetta e ti guardavo allenare. L’erba sintetica, così verde, mi calmava. A casa, poi, ti aiutavo a togliere quei granuli di gomma che ti entravano negli scarpini”).
L’autore non formula giudizi, non dice chi è bravo e chi è cattivo, se quella scelta sia giusta o sbagliata. Ed è bene che ogni lettore si faccia la propria autonoma convinzione; solo in un passaggio si trova una frase d’impeto, sulla morte somministrata dolcemente, ed è della madre del ragazzo: “che cosa assurda. Un mattatoio legalizzato, dove la gente viene ammazzata a pagamento. L’orrore profetizzato da Benson nel Padrone del mondo oggi è realtà. Se curiamo le malattie eliminando il malato possiamo abolire la professione medica e tenere solo quella di boia o, come si chiamerà in modo politicamente corretto, operatore eutanasico”.